Laura Waddington

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Immaginazioni: Riscritture e ibridazioni fra teatro e cinema

Di Stefania Rimini

Parte seconda — Autri miti, autre scene, autre schermi

V. Frammenti di Cinema Resistente

Excerpt pp. 195–199

Nell’ottica sensibile di Didi-Huberman il montaggio viene a configurarsi, anche alla luce delle esperienze extrafilmiche di Warburg, Benjamin e Bataille, come strumento di conoscenza, perché «intensiica l’immagine e restituisce all’esperienza visiva una potenza che le nostre certezze o abitudini visibili hanno la tendenza a sedare o a velare». Il richiamo a Godard e a Lanzmann, a cui occorre aggiungere per lo meno Nuit et Brouillard di Alain Resnais (Francia, 1955), si lega proprio all’ossessione dichiarata dall’autore, cioè a quella volontà di capire il legame tra dolore e immagine che il cinema, e segnatamente il cinema sulla Shoah, veicola con grande efficacia.

Nel volume Come le lucciole l’autore rinuncia ad un apparato teorico tanto robusto, ma la settima arte occupa uno spazio solo apparentemente marginale, perché la densità di rimandi e percorsi dell’ultima sezione culmina nell’esemplarità dello sguardo militante di Laura Waddington, videomaker inglese autrice del video Border, girato nel 2002 a Sangatte presso il campo della Croce Rossa in condizioni di estremo disagio tecnico ed emotivo. Sebbene circoli più volte tra le pieghe del discorso il fantasma di Guy Debord e della sua monitoria Società dello spettacolo, Didi-Huberman ammette l’esistenza di un cinema non compromesso con i sistemi di produzione del consenso, libero pertanto di attivare una feconda connessione tra reale e immaginario, fra presente, memoria e racconto, e lo indica puntualmente come viva testimonianza.

Certo il nome di Laura Waddington è appena una scintilla, ma abbiamo comunque provato a seguirne la scia, come del resto raccomanda lo stesso autore nelle ultime battute del libro:

“Ci rimangono le immagini di Laura Waddington e i nomi – nei titoli del ilm – di tutti coloro che ha incontrato. Possiamo riguardare il ilm un’altra volta, possiamo consigliare di guardarlo, farne circolare i frammenti, che ne genereranno altri: immagini-lucciole.”9

L’odissea degli uomini cespuglio

Rendre aux figurants leur dignité, c’est
à dire, d’abord, leur figure: l’éthique
d’une image dépend souvent de cela.

Georges Didi-Huberman

Quello della Waddington è senza dubbio un cinema della migrazione, concepito come racconto di una condizione innanzitutto esistenziale (l’autrice ha vissuto clandestinamente per molti anni a New York) e poi come attraversamento, come passaggio verso altri luoghi, altri conini. La scelta di utilizzare il video obbedisce al bisogno di pervenire a una piena libertà stilistica e produttiva, distante dal modello del cinema in senso stretto, tanto che addirittura i primi film non prevedono sequenze girate in prima persona, ma solo un paziente lavoro di montaggio. L’erranza del suo sguardo pone al centro dell’obiettivo dei «corps déplaces»,10 in transito ai margini del mondo, spesso appena riconoscibili dentro i bordi del quadro, come nel caso di Border. Questo video è un esperimento visivo estremamente interessante, innanzitutto per le condizioni tecniche ed emotive in cui è stato prodotto. Il campo di Sangatte, chiuso con la forza nel dicembre del 2002, è infatti una sorta di luogo simbolico, una «metonimia del presente per dire tutte le frontiere del mondo»,11 abitato da una folla straripante di dannati della terra. Dal 1999 al 2002 sono passati dal campo circa 63.000 rifugiati, provenienti per lo più da Iraq e Afghanistan e convinti di poter toccare le coste dell’Inghilterra distanti appena «due passi» (come si legge su un cartello dell’autostrada), ma invece spesso irraggiungibili.

La dura repressione del governo francese ha infatti reso estremamente dificile ai clandestini l’attraversamento della Manica, causando una serie di gravi ferimenti, di morti violente e dolorose odissee. La permanenza nel campo si è rivelata, dunque, per molti di questi migranti un’esperienza ai limiti della sopportazione: «A Sangatte si viveva da cani, di sicuro non vi hanno fatto vedere dove ci tenevano».12

Chi ha provato per prima a mostrare lo stato d’emergenza di Sangatte è Laura Waddington, che si è mimetizzata per lunghi mesi nella giungla del campo, tra i rifugiati. Una delle rare consolazioni per questi uomini in fuga è stata allora la presenza vigile della macchina da presa della regista, pazientemente posata su un volto o un corpo opaco, «nascosto tra i cespugli, quasi cespuglio».13 L’esito di tale ‘pedinamento’ visivo è una narrazione sconvolgente, quasi «un’opera espressionista, con un design visivo e sonoro che espone mirabilmente il dolore e la sofferenza degli altri come se fosse tua».14 Il racconto procede per quadri di fulminante bellezza; a scandire le immagini ci pensa la musica di Simon Fisher Turner, una sorta di basso continuo spezzato a tratti dalla voce della Waddington, sempre accorata, partecipe, mai retorica. L’assenza di un plot organico dà al racconto la forma di un’allucinazione, in cui ciò che conta non è la logica del raccordo ma lo stream of consciousness, l’affollarsi sullo schermo di ombre, fiati, vento e terra.

La prima sequenza del video è una sofferta immersione tra il verde cupo della boscaglia; l’obiettivo segue i movimenti di un rifugiato accucciato nell’erba, in attesa di poter saltare su un treno in corsa. La grana delle immagini consente di distinguere solo il proilo dell’uomo, ma basta intravedere i contorni della figura per sentire tutto il brivido di una situazione assurda. I bruschi passaggi di luce, il contrasto fra il cielo rossastro e il campo scuro danno al video un’intensa connotazione figurativa, che lascia senza fiato. Anche l’obiettivo respira con affanno, sobbalza e trema in uno slancio empatico davvero impressionante. Come giustamente nota Bertrandt Loutte «la disperata macchina da presa di Laura Waddington evita scrupolosamente di attribuire ai volti dei rifugiati una condizione animalesca, il piglio di bestie braccate. Niente di predatorio, nessun dogma sociale, solo un’empatia reale in questo ilm inquieto e coraggioso».15 Border è in effetti un raro esempio di armoniosa coincidenza fra piano etico ed estetico: la toccante qualità delle immagini (sgranate, instabili, a tratti addirittura rallentate) è sempre al servizio dell’emozione e così può accadere che la fragile bellezza di silhouettes schiacciate contro l’orizzonte diventi un grido, un lampo, una lucciola.

Nel raccontare l’angoscia dei rifugiati, la loro esistenza negata, la regista rifiuta la tentazione dello spettacolo, lavorando quasi per sottrazione, consapevole di poter soltanto suggerire lo spaesamento e l’ambiguità di quel non-luogo. Paradigmatica in questo senso è la sequenza della carica della polizia, in cui per la prima volta ci vengono mostrati i volti dei clandestini, ammassati e vocianti, e dei poliziotti, stretti nelle loro divise. Improvvisamente alla musica subliminale di Fisher Turner si sostituiscono le grida in presa diretta dei rifugiati, urtati e colpiti dai manganelli; nonostante le ripetute cariche della polizia la macchina da presa danza, sublima la violenza degli affondi attraverso un gioco di colori, ritmo e sfumature. Prima di tornare a pedinare i margini del campo, c’è il tempo per poche immagini annegate in un silenzio irreale: qui la danza della macchina da presa diventa macabra, restituendo tutta l’insensatezza e la banalità del male.

Pur nella frammentarietà dei brani, Border descrive con insistenza il cammino erratico dei rifugiati lungo le autostrade di Sangatte, e in queste prolungate inquadrature c’è la coraggiosa volontà della Waddington di esplorare le zone d’ombra della contemporaneità, i territori occupati da popoli invisibili che si trascinano dentro la bolla della globalizzazione. A ribadire il principio della lotta contro le ingiustizie è la stessa autrice, a colloquio con Filippo del Lucchese:

“D: C’è un forte contrasto nel film tra individui e merci che viaggiano rapidamente attraverso il canale della manica, sui treni, ad una velocità pari a quella della globalizzazione, e le persone che cercano di afferrare le estremità di quei treni, sperando di riuscire a superare la frontiera, portati via alla stessa velocità.”

“R: […] Sì, io ero costantemente colpita da questo contrasto, dalla collisione di questi due mondi in un unico spazio. I rifugiati attraversavano il campo per lo più come fantasmi e io ho cercato di rappresentarli così. È stato molto dificile per me capire la coesistenza di queste due realtà. Nel ilm ci sono molti fari di automobili. Per i rifugiati che ho incontrato, queste luci rappresentano i francesi, con cui loro hanno avuto sporadici contatti o addirittura nessuno. Non ho mai visto dei francesi camminare a piedi lungo quelle strade. C’è una forte sproporzione tra i rifugiati, che camminano sempre a piedi, e i fari delle macchine che passano accanto a loro in continuazione.”16

Non è facile sottrarsi alla luce abbagliante dei fari, segno e forma di un potere cieco e violento, a cui si somma l’indifferenza dei francesi, protetti dalle loro case e da auto che sfrecciano via veloci. Alla corsa inarrestabile del mondo gli «uomini cespuglio» sanno opporre il passo lento della marcia, la paura di restare a terra, il freddo della sera e, in rari momenti di tetro entusiasmo, il raggio di una danza, luminosa e intermittente come un verme di luce.

Footnotes

Source

Rimini, Stefania. Immaginazioni: Riscritture e ibridazioni fra teatro e cinema. Acireale: Bonanno Editore, 2012: pp. 13, 195–198, 200. (The chapter “Frammenti di cinema resistente” first appeared as an article in La Rivista di Engramma, no. 84 (Lucciole malgrado tutto), October 2010, and is printed in the book with light revisions.)

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