Laura Waddington

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Oltre la rappresentazione, dentro la vita in Border di Laura Waddington

By Elena Marcheschi

Capitolo 3: Società globale, effetti collaterali

Excerpt p. 89–92

La dimensione dei migranti, i percorsi impossibili dei rifugiati sono al centro della produzione audiovisiva della filmmaker inglese Laura Waddington (1970, Londra)29, osservatrice nomade che con grande sensibilità ha saputo restituire questi spaccati di vita attraverso un lavoro che, prima di tutto, è una ricerca umana e sociale e, successivamente, artistica. Con una formazione letteraria alle spalle, migrante illegale lei stessa in percorsi che dall’Europa l’hanno portata a New York e viceversa, Waddington ha avviato una produzione di cortometraggi e video indipendenti a vocazione fortemente sperimentale che, col proseguire delle esperienze intorno al mondo, hanno messo al centro della sua vita e del suo sguardo le durissime esperienze di un’umanità esiliata alla ricerca disperata di un luogo in cui poter vivere, ricostruire una dignità, trovare pace. Le esperienze in Medio Oriente, tra i Balcani, in Kurdistan sono stati per la filmmaker il terreno fisico e mentale sul quale poter forgiare la propria tecnica di sguardo che si spinge al di là di un’attitudine reportagistica, mostrando una volontà di adesione trasparente al reale e il desiderio viscerale di osservare, capire e dare visibilità e voce a un’umanità invisibile e straziata. È da questi presupposti che è nato Border (Francia-Gran Bretagna, 2004, 27’)30.

Nel 2002 Laura Waddington ha vissuto per alcuni mesi nella campagna intorno al campo della Croce Rossa a Sangatte, una piccola città francese ubicata nella regione del Nord-Pas de Calais, rifiutandosi di entrare a fare parte degli apparati giornalistici autorizzati dal governo e collegati alla Croce Rossa31. Lì ha seguito da vicino i rifugiati afghani e iracheni che tentavano di passare il tunnel sottomarino che collega la Francia al Regno Unito. Unitasi a loro, con una piccola DV camera ne ha filmato la routine notturna, i tentativi di fuga, le corse in mezzo ai campi, le attese spasmodiche, gli interventi repressivi della polizia fino agli scontri avvenuti per la chiusura del campo. Le immagini, girate sempre al buio, sono sgranate, confuse, tremolanti, mostrano lo struggimento di queste vite sommerse e disperate, con il coraggio di una limpidezza di sguardo che non cede al reale, ma che in esso trova la forza della rappresentazione. Instancabile, attenta, lucida, Laura Waddington ci restituisce un punto di vista che non agisce sui rifugiati, ma che si muove con essi, nel freddo della notte, con la paura di essere catturati e non farcela. Come ha scritto la filmmaker e critica marocchina Bouchra Khalili,

[…] questo è forse l’aspetto più essenziale del cinema di Laura Waddington, una certa capacità di negoziazione con la paura, con il visibile e le sue necessità – quella che potrebbe essere chiamata una costante negoziazione morale con la realtà32.

Non si tratta dunque di un confronto corpo a corpo con il reale, bensì di un’adesione totale, trasparente, come se l’artista cercasse un annullamento visivo del suo sguardo soggettivo e diventasse parte di quei campi, di quei respiri affannati, di quei tentativi di corsa verso una nuova vita.

Le immagini di Border, nel proporsi come testimonianza diretta, con un linguaggio disorganico e a tratti allucinatorio, trasudano la violenta alienazione di esistenze ai margini, collocate non solo ai confini degli stati e ai confini delle società, ma anche ai confini della comprensione umana. E se in esse è possibile rintracciare una bellezza, questa arriva sottilmente agli occhi degli spettatori attraverso la reiterazione del gesto di fuga, in quella ostinazione tutta umana nel voler perseguire il proprio scopo, il proprio disperato desiderio di passare il confine.

Se dal punto di vista visivo l’autrice ha cercato di farsi il tramite più possibilmente “oggettivo” del reale, la sua presenza vera e compassionevole emerge nel racconto in voice over che copre l’intero video e che si dipana su una musica di sottofondo che scorre come un’onda continua, sempre uguale e incessante. Anche in questo caso la scrittura non è reportagistica né giornalistica, mancano il sensazionalismo o la volontà di cronaca. La filmmaker disvela una sorta di diario intimo e, mentre il senso delle immagini era quello di fissare una realtà nell’immaginario degli spettatori, le parole scorrono come un sussurro che arriva direttamente al cuore. Il racconto personale ed emotivo dell’esperienza vissuta si incrocia con le storie drammatiche dei rifugiati da lei riportate, dove emergono percorsi disseminati di perdite, di morte, ma anche di pervicace speranza. Tra questi trovano spazio anche le amare considerazioni di chi ce l’ha fatta, di chi quel tunnel è riuscito a passarlo, senza però avere trovato oltre quel confine il mondo che si aspettava.

L’effetto complessivo del video è potente e disorientante. Laura Waddington si immerge nella drammaticità di questo spaccato di vita, la osserva così da vicino da forzare anche le più radicali istanze di adesione al reale auspicate dalle avanguardie, dal cinema underground, dal cinema verità. È un contatto così delicato e cruciale che fa deflagrare la documentazione di un’esperienza personale in un’astrazione universale densa di significato, e che innesca una serie di domande e di riflessioni che richiedono allo spettatore una presa di posizione umana e politica. Il materiale girato, confuso e frammentato, come sostenuto dalla studiosa Eva Kuhn:

testimonia il suo oggetto, senza mostrarlo. O comunque mostrare è sempre connesso col nascondere e la testimonianza della filmmaker suggerisce l’inaccessibilità de visibile. Questo approccio mostra una presa di coscienza etica dei media: i protagonisti di Laura Waddington si nascondono nell’interferenza delle immagini. Li protegge dall’essere scoperti. […] Questo avviene contraria­mente a quanto accade nel giornalismo televisivo convenzionale, ma anche nei più critici film documentari.33

Distante anni luce dal cinema convenzionale, ben oltre il formalismo del cinema sperimentale, in posizione radicalmente contraria rispetto a qualsiasi linguaggio televisivo e senza l’attitudine informativa del documentario, l’autrice condivide con Border la propria esperienza di video-militanza attiva, lavorando al confine delle immagini e su un sentimento di vuoto e di perdita che, quasi come un ossimoro, configura e fissa nella sua memoria e in quella degli spettatori la presenza indefinita di quanti senza un volto, senza documenti e alla ricerca di un futuro, reclamano il proprio diritto di esistere, di essere riconosciuti e di vivere.

Immagini, quelle di Laura Waddington, che non scendono a compromessi, che riescono a creare un cortocircuito fecondo tra realtà e immaginazione, tra testimonianza e rappresentazione e che, vive e incisive “come le lucciole”34, squarciano lievi il buio del vuoto etico in cui sembra essere sprofondata la società contemporanea.

Footnotes

Source

Marcheschi, Elena. “Oltre la rappresentazione, dentro la vita in Border di Laura Waddington.” In Videoestetiche dell’emergenza: L’immagine della crisi nella sperimentazione audiovisiva. Turin: Edizioni Kaplan, 2015: pp. 78, 89–92.

(An English translation “Beyond Representation, into Life in Border” is also available on Laura Waddington’s website.)

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