Laura Waddington

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Lacune visive: Bassa definizione per un’etica della testimonianza

Di Cecilia Bima

Premessa

Cosa succede se lo sguardo non si dirige più all’altro, ma innesca un circuito senza possibilità di rintracciare un’alterità che ci ri-guardi in quanto individui, se cioè la nostra esperienza del mondo è a tal punto mediata da un immaginario eterodiretto e tanto introiettato da essere automaticamente funzionante in ogni intervallo tra un battito di ciglia e l’altro, e se, attraverso di esso, leggiamo il circostante?

M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria e il cinema, Firenze, Le Lettere, 2008, p. 274

Esiste una leggenda ebraica, riportata da Giorgio Agamben in Il fuoco e il racconto1, che narra la progressiva perdita del contatto con il fuoco nella successione delle generazioni chassidiche: il fondatore del movimento, infatti, prima di assolvere un compito difficile, si recava nel bosco e, dopo aver acceso il fuoco e recitato le preghiere, ciò che chiedeva si realizzava. La seconda generazione perse invece la capacità di accendere il fuoco, ma conservò la memoria delle preghiere; fu la terza quella che non possedeva più la capacità di accendere il fuoco, né di recitare le preghiere, ma conosceva il posto nel bosco. Si racconta, poi, che la quarta generazione avesse perso la memoria sia del fuoco, che delle preghiere e del posto nel bosco, ma di tutto quello poteva ancora raccontare la storia: «E, ancora una volta, questo bastò2». Quella chassidica è la storia di una progressiva perdita, di un allontanamento dalle fonti originarie del mistero e della sua esperienza mistica. L’unico residuo di questa condizione originaria a essere conservato è però la capacità di raccontarla. Agamben individua in questo nodo l’essenza della letteratura che reca in sé un problema sostanziale: «in che modo un elemento, la cui presenza è la prova inconfutabile della perdita dell’altro, può testimoniare di quell’assenza, scongiurarne l’ombra e il ricordo? Dove c’è racconto, il fuoco si è spento, dove c’è mistero, non ci può essere storia». Non si può assumere l’ambiziosa posizione di testimone di una perdita, una mancanza e quindi di una condizione che non appartiene a chi narra. Il racconto è cioè un gesto pretenzioso e prepotente, a tratti quasi illegittimo, se il mistero, il fuoco sono andati persi. Eppure, la leggenda chassidica sembrerebbe parlare del contrario: il racconto, ancora una volta, basterebbe. Nel gesto imperioso del poeta, infatti, si fa spazio a volte «un tremito, qualcosa come un’intima vacillazione, in cui bruscamente lo stile tracima, i colori stingono, le parole balbettano, la materia si aggruma e trabocca. Questo tremito è la maniera, che, nella deposizione dell’abito, attesta ancora una volta l’assenza e l’eccesso del fuoco3». È nel cedere del controllo sullo stile, nel tremito e nell’esitazione, quindi, che si manifesta qualcosa dell’inaccessibilità del reale. La mancanza del fuoco trapela in quei momenti in cui la voce narrante si spezza, dando vita a una sincope nella regolarità e nella trasparenza di un racconto.

Il nodo cruciale di questo lavoro consiste proprio nell’apertura generata dalla domanda che pone Agamben: come è possibile rendersi testimoni, raccontare una storia, di fronte a una realtà che sfugge la comprensione e la possibilità di rappresentazione? Come conciliare un’irriducibile asimmetria di sguardi sul mondo, nell’atto di fare cinema? Zone, Cargo e Border di Laura Waddington, i tre documentari sperimentali presi in analisi, portano alla luce rispettivamente tre modalità paradigmatiche di risposta al problema. Le immagini presentano infatti una bassa definizione, una grana spessa ed evidenti sfocature, che, oltre a testimoniare di specifiche condizioni di ripresa del video, sono indice di un vuoto nella comprensione e di un’impossibilità di penetrare la patina che ne sfoca i contorni. È quindi sul concetto di bassa definizione che si concentra il primo capitolo introduttivo, il quale mira a una ricognizione della tradizione teorica sulle immagini sfocate, sgranate, mosse e, più generalmente, di “bassa qualità”. I successivi capitoli invece analizzano rispettivamente i tre documentari in questione, ponendo attenzione alle caratteristiche paradigmatiche che ognuno di questi presenta: la disgregazione dell’immagine in Zone racconta di una ricerca vacua e vana sul ponte di una nave, con una microcamera cucita alla stoffa di un gilet. Vengono abbattute così le tradizionali modalità di ripresa, conferendo al corpo le competenze dello sguardo. In Cargo invece l’immagine sgranata mette in luce la distanza fisica che si interpone tra la camera e l’oggetto che viene ripreso, la lontananza a cui l’occhio dello spettatore è costretto; la regista, infatti, intraprende un viaggio su una nave cargo con un equipaggio composto da persone senza documenti: come farsi testimoni di una condizione che non appartiene a chi riprende? La distanza come ostacolo a una visione nitida incarna proprio la volontà di non appropriarsi dell’alterità e di far segno alla differenza. Border infine è caratte-rizzato da immagini buie e mosse, frutto dei movimenti concitati della regista che segue i tentativi di fuga dei migranti del campo di Sangatte, nei pressi di Calais. Il diaframma molto aperto e i movimenti bruschi del corpo generano immagini fragili e traballanti, a riprodurre la visione dei profughi durante la notte.

Oltre alla specificità dei singoli, esiste tuttavia un filo rosso comune a ognuno di questi oggetti, che ne guida l’analisi e permette di interpretare gli effetti di senso generati da un’estetica della bassa definizione, nelle sue differenti declinazioni. La scelta estetica di Laura Waddington instaura, infatti, con le parole di Agamben un forte rapporto di analogia. Agamben parla di “maniera” che balbetta e vacilla, riferendosi a un verso tratto dal Paradiso di Dante, che recita: «l’artista / ch’a l’abito de l’arte ha man che trema4». È nel tremolare della mano, dunque, che sembra collocarsi lo stesso sfocato dei documentari di Waddington, testimone di una mancanza intrinseca, una distanza ostinata tra il suo sguardo e quello dell’osservato. Nella perdita della definizione dell’immagine sembrerebbe sorgere il “racconto del fuoco”, la cui conoscenza è stata persa lungo le generazioni.

Infine, questo lavoro ipotizza un ruolo specifico dell’opacità dell’immagine. La sfocatura, la mancanza di nitidezza e la visione offuscata sono effetti di senso e, nel contesto del documentario, si fanno strumenti per affermare un’etica della testimonianza. Il lavoro di Laura Waddington insiste sui limiti dello sguardo, portando alla luce la dicotomia problematica tra trasparenza e opacità, componenti cruciali nella riflessione sulla visione. Vedere tutto, vedere adesso, vedere tutti, sono le tre componenti che determinano la comple-tezza dell’immagine e occupano totalmente lo schermo, non lasciando spazio a nient’altro e creando una sorta di immagine totale5. Nel porre un ostacolo alla visione e presentare un’immagine in negativo, l’artista combatte dunque il rischio di appiattimento e livellamento dello sguardo che vede tutto, tutti e sempre; è fondamentale quindi riflettere sulle modalità di conservazione e rispetto della posizione altra, senza che questa venga «spodestat[a] dal suo regno6». I ragionamenti condotti in questa ricerca mirano dunque a individuare e indagare gli effetti di senso generati da immagini in bassa definizione e come queste si facciano testimoni di un’alterità e un’asimmetria di sguardi che caratterizzano gli orizzonti del reale in gioco in queste opere.

Footnotes

Source

Bima, Cecilia. “Lacune visive: Bassa definizione per un’etica della testimonianza.” Corso di Laurea Magistrale in Arti Visive, Università Iuav di Venezia, Dipartimento di Culture del Progetto, 2019/2020: pp. 1–124. (Master’s thesis devoted to Laura Waddington’s films Border, Cargo and Zone.)

(An English translation by Marguerite Shore, “Visual Gaps: Low Definition for an Ethos of Bearing Witness,” is also available on Laura Waddington’s website.)

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