Lacune visive: Bassa definizione per un’etica della testimonianza
Di Cecilia Bima
Capitolo 1: Bassa definizione e immagine testimoniale: La lacuna visiva come strategia di autenticazione
Estratti
pp. 17–32
How to continue filming when the act of recording and looking at an image has radically changed and the space in which we look at images is an ever less communal and potentially transformative one? […] Can we push away the clutter that clouds our vision and simply look? Or has the act of looking changed forever?
L. Waddington, Scattered Truth, part 2a, 2014, [online www.laurawaddington.com/article, accesso giugno 2020].
I media e la bassa definizione
In una celebre e ormai forse obsoleta distinzione formulata da Marshall McLuhan, si riconosce la doppia natura che caratterizza diversi tipi di media, calda (hot) o fredda (cold). Nel 1964 in Understanding Media: The Extension of Man1 McLuhan sostiene che i cosiddetti hot media, tra i quali rientra il cinema in alta definizione, presentano caratteristiche di alta intensità percettiva, e di coinvolgimento dei sensi dello spettatore; in sostanza, si entra a far parte totalmente del mondo rappresentato, tanto da rimanere imprigionati in una forma di “numbness”, di intorpidimento delle capacità di reagire e muoversi. Sono invece i cool media, grazie a dei tratti di bassa definizione e di assenza di dettagli, che permettono allo spettatore di porsi in una condizione tensiva, come a richiedere uno sforzo ulteriore per completarle. Il cool medium emblematico è la televisione, il piccolo schermo, che a differenza del cinema permette di immagazzinare una quantità molto minore di elementi nel processo di costruzione dell’immagine, risultando dunque di minore intensità; per questo motivo riesce a instaurare un rapporto diverso con il pubblico, ovvero una sorta di «patto2» in cui, come un «gigante timido», è presente nelle case dei suoi spettatori in una maniera costante, ma mai incombente. Per comprendere meglio la tensione provocata dai cool media, McLuhan riporta, con la sua nota ironia, un esempio che mira a definire i caratteri generali dei media caldi e freddi.
Il principio che distingue i media caldi dai freddi è perfettamente espresso dal detto popolare: “è raro che gli uomini abbordino ragazze con gli occhiali”. Gli occhiali infatti pongono l’accento sulla visione rivolta verso l’esterno e in genere riempiono eccessivamente l’immagine femminile. Gli occhiali scuri, peraltro, creano un’immagine impenetrabile e inaccessibile che provoca una grande dose di partecipazione e di completamento3.
Tralasciando l’inattualità della situazione riportata, emerge in maniera evidente la nozione di impenetrabilità in relazione alle necessità di partecipazione e completamento, e dunque la tensione innescata dai cool media nel processo percettio dello spettatore. Se da una parte, quindi, il medium caldo permette di accedere a una grande quantità di dati e di informazioni visive, d’altra parte il medium freddo «offre poco4» ed esige un grosso contributo da parte di chi guarda o di chi ascolta. L’imperfezione delle immagini ostacola una visione e una comprensione complete e, lavorando a un livello più «emotivo e epidermico5», si propone di «affermare con i suoi segni che il mezzo di ripresa era “in quel momento” rispetto a ciò che documenta6». Se le tracce di ripresa arricchiscono quindi la nostra impressione di realtà, al tempo stesso impoveriscono lo standard qualitativo dell’immagine: «ci promettono un’adesione piena al reale, ma ci obbligano a rinunciare alla pretesa di voler vedere tutto7».
Ora, la teoria di McLuhan necessita una rilettura dovuta all’evidente ibridazione e sovrapposizione dei media negli ultimi decenni: il cinema perde la sua specificità di produrre immagini immersive e ad alta definizione, assistendo al contrario all’avanzata di quelli che fino a quel momento venivano considerati “cool media”. I telefoni cellulari e la televisione per la prima volta vengono presentati sul mercato con nuove tecnologie stereoscopiche, al fine di riprodurre quelle ad alta definizione introdotte dal cinema8.
Ciononostante, la distinzione di McLuhan risulta comunque fondamentale per condurre un ragionamento sullo statuto dell’immagine in bassa definizione: secondo Casetti e Somaini, infatti, anche il cinema contemporaneo, da parte sua, starebbe sviluppando una strategia inedita. Se, da una parte, continua a lavorare con immagini caratterizzate dall’alta definizione e dal 3D, parallelamente e in direzione opposta incorpora le immagini tipiche di altri media. Il cinema, in altre parole, avrebbe ormai intrapreso un movimento di “raffreddamento” – di_cooling down_ – recuperando le immagini originate da media appunto più freddi: videocamere di sorveglianza, webcam, cellulari, schermate da telefoni o tablet. La ragione, secondo Casetti e Somaini, sarebbe duplice: se da una parte il cinema si starebbe semplicemente adattando ad una tendenza “al raffreddamento” diffusa e generalizzata dei media, dall’altra questo movimento permetterebbe un nuovo dispiegarsi di «energie ibride9»; varrebbe a dire che ogni cambio di temperatura, specialmente se ciò implica la sovrapposizione e lo spostamento di media diversi, corrisponderebbe alla nascita di nuove forme di creatività «in nome di un costante détournement delle convenzioni comuni10». Questa dinamica mette dunque in moto nuove consapevolezze sulla natura dei media e dei segni, ponendo il cinema a livello di “macchina del pensiero” [thought machine], proprio come era stato “macchina dell’illusione” [illusion machine] sotto il regime dell’alta definizione.
Come risultato si otterranno così prodotti transitori, nati per essere inviati, compressi e ricevuti in breve tempo, immagini realizzate in fretta e, con ogni probabilità, con poca attenzione alla qualità; si tratta di «immagini povere» secondo la definizione formulata da Hito Steyerl in In defense of the poor image (2009).
The poor image is a copy in motion. Its quality is bad, its resolution substandard. As it accelerates, it deteriorates. It is a ghost of an image, a preview, a thumbnail, an errant idea […]. The image is liberated from the vaults of cinemas and archives and thrust into digital uncertainty, at the expense of its own substance. The poor image tends towards abstraction: it is a visual idea in its very becoming11.
Un fantasma, un’anteprima, un’idea errante. Nel tendere all’astrazione, l’immagine povera si configura come un’idea nel suo divenire, dice Steyerl, che, in termini più concreti, potrebbe essere descritta come un’immagine dalla bassa risoluzione. Data la velocità di circolazione, l’accessibilità e la quantità esorbitante di “immagini povere” presente sul web, viene concessa poca attenzione alla qualità e alla definizione: esse subiscono, in qualche modo, un processo di “svalutazione” qualitativa.
The image is liberated from the vaults of cinemas and archives and thrust into digital uncertainty, at the expense of its own substance [12].
L’artista immagina dunque, in un secondo momento, di designare un’ipotetica gerarchia dell’immagine contemporanea [contemporary hierarchy of images] [13], in cui colloca il cinema al vertice, con il ruolo di flagship store, cioè uno specifico tipo di esercizio commerciale caratterizzato da un’atmosfera speciale e coinvolgente e prodotti di lusso: «In the class society of images, cinema takes on the role of a flagship store. In flagship stores high-end products are marketed in an upscale environment14». Dunque, anche Steyerl, così come McLuhan, associa la nozione di coinvolgimento sensoriale ed esperienza immersiva al cinema come medium. Le immagini più accessibili invece, intese come derivate di tali immagini «ricche», occuperebbero i livelli inferiori della gerarchia, quelli del Lumpenproletariat – il sottoproletariato; essi circolano nei loro formati più comuni in AVI o JPEG, rag o rip e sotto forma di DVD, programmi televisivi o video online, in altre parole, come immagini povere.
Non sorprende quindi che le conseguenze di questa, purché labile, distinzione sfocino in terreni politici e sociali: come in Deconstructing Harry (2009) di Woody Allen, la figura a fuoco si identifica con una determinata e ben chiara posizione sociale privilegiata e anche la qualità dell’immagine stessa è il sintomo di una struttura culturale che predilige l’alta definizione e la purezza estetiche come valore di un prodotto (fig.1). È questo uno dei motivi per cui fino a venti o trent’anni fa il cinema più sperimentale era sottoposto a un diffuso e capillare oscuramento, dovuto, secondo le parole di Steyerl, alla «radicalizzazione neoliberale del concetto di cultura come commodity15», ovvero come bene di consumo; i suoi prodotti, di conseguenza, sono stati relegati esclusivamente in ambienti circoscritti come esposizioni museali e film club. Fu solo successivamente con la possibilità dello streaming online che gradualmente gran parte del materiale, fino a quel momento inaccessibile, riapparve su piattaforme come Ubuweb o You-tube. Si trattava, in altre parole, di spazi virtuali che riempivano i vuoti lasciati dalle «state-cinema organizations16», confermando ancora una volta la loro posizione subalterna nella gerarchia delle immagini. Una crescente e continua diffusione delle stesse poor images su questo tipo di piattaforme portò a galla, tuttavia, alcune delle contraddizioni intrinseche al sistema delle immagini: la facilità e la velocità con cui venivano trasmesse di mano in mano, da dispositivo a dispositivo, e successivamente modificate, erano la chiara dimostrazione di un comportamento della “massa” degli utenti, schizofrenico, paranoico e incapace di concentrarsi.
They express all the contradictions of the contemporary crowd: its opportunism, narcissism, desire for autonomy and creation, its inability to focus or make up its mind, its constant readiness for transgression and simultaneous submission. Altogether, poor images present a snapshot of the affective condition of the crowd, its neurosis, paranoia, and fear, as well as its craving for intensity, fun, and distraction17.
Pertanto, le modalità di trasmissione e spostamento di questa categoria di immagini sottolineate da Steyerl mettono in luce la loro inesausta circolazione ed estrema flessibilità; sono tuttavia i caratteri di non definizione, sgranatura e sfocatura a costituire il fulcro centrale di questo ragionamento: come si articolano questa scelta estetica e la fondamentale necessità di conferire valore di testimonianza all’immagine? È appunto in questo contesto che si collocano gli oggetti dell’analisi. Si tratta di tre documentari dell’artista britannica Laura Waddington, che presentano rispettivamente tre usi paradigmatici della “immagine povera”, movimenti e sfocature, zoom vertiginosi, pixel evidenti e diaframmi molto aperti, che fanno sì che la restituzione appaia non definita e, dunque, di bassa qualità. Le scelte dell’artista, veicolate da motivi diversi per ogni oggetto, permettono quindi di condurre una riflessione sul ruolo svolto dalla sgranatura nel caso specifico delle immagini documentarie e quali significati esse producano.
“DOCUMENTARY UNCERTAINTY”
A questo punto, è la nozione di «documentary uncertainty18» a risultare utile nello sviluppo del ragionamento: formalizzata da Steyerl, introduce la questione della pretesa di verità del genere documentario, in relazione ai caratteri di bassa definizione e indeterminatezza di un testo visivo. La sua riflessione prende origine da alcune immagini risalenti al 2003, quando gli Stati Uniti avevano da poco invaso l’Iraq: il video in analisi viene girato da un inviato della CNN con una camera di un cellulare da un veicolo armato; il giornalista appare estremamente eccitato e soddisfatto di ciò che era riuscito a catturare, perché immagini di quel tipo non si erano mai viste. In realtà, il video trasmesso è difficilmente leggibile, si trattava infatti di forme indefinite caratterizzate da macchie marroni e verdi che si muovevano lentamente sullo schermo, quello che Steyerl definisce: «a military version of abstract expressionism [19]»; l’immediatezza della documentazione, avvenuta in via totalmente non programmata, certifica anche una perdita della nitidezza e una difficoltà nel riconoscimento delle figure. Ecco perché la questione dell’intelligibilità, intesa come adesione alla realtà, gioca un ruolo cruciale nei documentari moderni: a maggiore “verità” del documento corrisponderebbe inferiore definizione della grana.
the more immediate they become, the less there is to see. The closer to reality we get, the less intelligible it becomes. Let us call this ’the uncertainty principle of modern documentarism20.
Pare, in altre parole, che il documentario moderno possegga una natura di intrinseca ambiguità, di incertezza – uncertainty – appunto. Ecco quindi, che prende vita un paradosso: la forma documentaria verrebbe meno al suo obiettivo primo, ovvero di informare nella maniera più chiara e trasparente possibile, necessitando al contrario di strumenti concettuali (conceptual tools, nei termini di Steyerl) per essere compresa. «The more secured the knowledge that documentary articulations seem to offer, the less can be safely said about them – all terms used to describe them turn out to be dubious, debatable and risky21». In questo modo, il concetto di adesione alla realtà entra quindi in crisi e perde di validità di fronte all’indeterminatezza che sembra invece connotare intrinsecamente l’atto documentario. Tuttavia, Steyerl è convinta che sia proprio questo paradosso, questa insicurezza nel definire il vero e il reale, a costituire il nucleo più interessante del documentario moderno. In particolare, nel ripercorrere il suo sviluppo storico, vengono posti come momento decisivo gli anni Novanta, quando il documentario riacquista nuova popolarità, dopo un lungo ventennio di sordina. Si assiste, più precisamente, ad un doppio movimento di questo genere che da una parte non rinuncia a rimanere inserito nel circuito dei media e ad assumere dunque un ruolo d’informazione – una «CNN alternativa22»; dall’altra, però, instaura un rapporto d’ibridazione con il campo dell’arte, innescando ciò che viene convenzionalmente indicato come il Documentary Turn. I cineasti iniziano a guardare ad alcune pratiche dell’arte contemporanea, come la videoarte, mentre, a loro volta, gli artisti esplorano il terreno del cinema proponendo nuove sperimentazioni.
È Marco Bertozzi a prendere in considerazione quest’ultima dinamica, descrivendola come «un incrocio virtuoso» che inaugura un nuovo regime riflessivo delle immagini e «coinvolge il dispositivo filmico in un gesto multiplo, capace sia di testimoniare che di fabbricare il reale. Non una dottrina, dunque, ma un metodo per pensare oggetti ibridi e pensanti, in una teoria-pratica consapevole di tenere insieme sguardo realistico sul mondo e sguardo sul proprio sguardo, sul modo stesso con cui lo sguardo costruisce il mondo23». Da questi nuovi impulsi nasce dunque l’esigenza degli artisti di utilizzare il documentario come strumento critico e come fonte di riflessione riguardo la politica della rappresentazione e le dinamiche di potere che la interessano. Il documentario moderno inaugura così un nuovo lavoro di scavo, che mira a scomporre e poi ricomporre criticamente il reale. Tuttavia, è proprio la modalità con la quale si verifica questo tentativo di legittimazione e di “dire il vero” a porsi come problematico: spesso si tralascia che i documenti sono essi stessi condensazione di potere e che legittimano e rafforzano, di conseguenza, le gerarchie che si cerca di minare.
È per questo motivo che, nonostante a livello di contenuto sembrino riuscire nel loro intento critico, l’espressione di alcune forme documentarie conferma invece i meccanismi di potere intrinseci al documento. «Ogni documento è menzogna24» sancisce con fare lapidario Le Goff nel suo testo fondativo Documento/Monumento, a smentire quindi la convinzione che considera il genere come un atto certificativo o, in altri termini, la manifestazione più scontata del reale. Il documento necessita cioè di una critica, di un atto di demistificazione, affinché vengano esplicitati gli interessi politici di cui è investito dalla società che l’ha prodotto e utilizzato; il documento non è mai innocuo e come tale produce autonomamente dei significati altri. È su questo nodo che Bertozzi si sofferma nel definire la natura del documentario contemporaneo: esso «induce a rielaborare il sistema di credenze esistenti attraverso un’attenzione interpretativa forte, capace di osservare significati eccedenti quelli manifesti25». Ecco che entra dunque in gioco, in maniera estremamente decisiva, l’ampia sfera del visibile, della messa in forma, come portatrice di significati politici; l’uso di immagini sempre più “incerte”, in particolare, stimola sentimenti di tensione e allerta costanti in chi guarda, che nel tentativo di comprendere ciò che l’immagine propone, mette in moto una diversa facoltà critica; è infatti attraverso questo nucleo problematico che l’immagine rivela le sue implicazioni politiche.
Jacques Rancière elabora la nozione di politica come “pratica estetica” in Le partage du sensible26: la politica ha cioè per oggetto ciò che può essere visto o ciò che può essere detto, chi ha la competenza per vedere e la qualità per dire; la politica regola la proprietà degli spazi e del tempo. Questo concetto, che niente ha a che vedere con “l’estetizzazione della politica” propria della società di massa di cui parla Walter Benjamin [27], è da intendersi invece in senso kantiano, in quanto sistema delle forme a priori che determinano ciò che è dato da percepire.i significati altri.
On peut l’entendre en sens kantien – éventuellement revisité par Foucault -, comme le système des formes a priori déterminant ce qui se donne à ressentir. C’est un découpage des temps et des espaces, du visible et de l’invisible, de la parole et du bruit qui définit à la fois le lieu et l’enjeu de la politique comme forme d’expérience28.
La politica, quindi in quanto pratica estetica contribuisce alle forme di visibilità delle pratiche artistiche stesse, del luogo che occupano e di ciò che «fanno» in relazione alla comunità. Ma è possibile leggere questo rapporto anche in senso contrario, ovvero la materia sensibile che si fa portatrice di significato e assume valore politico; così come nell’esperienza onirica, esemplifica Bertozzi, anche il documentario necessita di essere interpretato seguendo la traccia del territorio simbolico, «la creatività attivata dal documentario scarta [infatti] dalla riduzione linguistico-verbale del contenutismo, per uscire dalla regola acquisita, riediando libere risposte immaginative, alla ricerca di originali esiti estetici29».
Di cosa parla quindi quella grana indefinibile del documentario della CNN citato da Steyerl e, di conseguenza, l’immagine in bassa definizione e sfocata dei documentari di Waddington? Steyerl risponderebbe che si tratta del riflesso fedele di una generale incertezza che interessa soprattutto l’atto della rappresentazione. È tuttavia necessario analizzare più nello specifico quali significati vengono prodotti dalla scelta di una “immagine povera” e come questa entri in relazione con la presentazione dei soggetti, la posizione assunta dall’artista stesso e la percezione dello spettatore.
Seguendo le parole di Dusi, a proposito di una delle forme principali della bassa definizione, cioè l’effetto flou, «Lo sfocato non nasconde, mostra. Rende evidente la nostra immaginazione all’opera per ricucire, ricapitolare il senso: apre l’immagine alle interpretazioni proprio “mettendo un velo” alla sua leggibilità30». Sia in pittura, sia in ambito cinematografico, lo «sfocato» risulta da un insieme di forze che «cotruiscono un sistema di variazione e trasformazione delle figure31», creando zone non definite, di indecidibilità. A livello plastico32 quindi, è generato da un indebolimento delle categorie di configurazione della forma, di matrice eidetica, e la modulazione della diffusione della luce: si assiste cioè a una dispersione dei contorni e una «dissipazione della densità delle figure33».
Il filtro di indecidibilità, che offusca l’immagine, ne rivela la grana e ne rallenta il riconoscimento figurativo: lo spettatore viene così interpellato dalla natura opaca dell’immagine e viene posto come «soggetto del volere». Il non-poter-vede-re insito all’immagine stimola dunque il suo sguardo tramite uno sforzo cognitivo di riconoscimento; egli viene tuttavia stimolato anche sul piano patemico, come a generare ciò che viene definita una nostalgia del percepibile, ovvero una condizione di mancanza da colmare. Ecco perché Dusi definisce queste deformazioni e offuscamenti del sensibile come «zone d’attesa34», la visione dello sfocato e il suo conseguente riconoscimento si presentano infatti come un processo durativo o di «sospensione incoativa35», in opposizione invece ad una visione nitida e distinta, caratterizzata da una puntualità terminativa. Analogamente, anche la bassa definizione dell’immagine povera può inserirsi facilmente nella definizione di «zona d’attesa», la sgranatura dovuta alla compressione del file digitale o alla manipolazione da parte degli utenti conferma lo scarto nella leggibilità delle figure. È dunque in questo contesto che si assiste a uno slittamento tra «modi di esistenza semiotica diversi delle figure36», di passaggio, cioè, da uno stato concluso e definito a uno potenziale, in cui le figure ritornano allo stato di configurazioni o di formanti plastici.
IMMAGINE TESTIMONIALE
Nel caso specifico dei documentari in analisi, un ipotetico spettatore avrebbe accesso quindi a «una grana danzante e [a dei] movimenti balbettanti37», che renderebbero la decifrazione rallentata o impossibile: «Fragile and at breaking point, the images which emerged, were on the verge of disappearance38», le immagini cioè sono sul punto di scomparire, osserva Laura Waddington. Lo sforzo cognitivo e patemico a cui si è costretti, dunque, sembrerebbe farsi carico di una specifica richiesta dell’immagine sulle sue potenzialità testimoniali: quali sono le possibilità che questa diventi un’effettiva esperienza visiva? Con “potere testimoniale” si intende la capacità dell’immagine-documento di oltrepassare la barriera della spettacolarità conferitale dai media, per essere «ricondotta alla sua capacità, evidentemente compromessa, di farsi esperire come una testimonianza del fatto reale e non della sua epifania mediale39». Pietro Montani descrive i tratti di questo potere dell’immagine riferendosi a una fotografia circolata in rete per qualche tempo e risalente alla strage di Beslan nell’Ossezia del nord, del 2004; un gruppo terroristico locale aveva fatto irruzione in una scuola dove i bambini coi genitori e gli insegnanti stavano festeggiando l’inizio dell’anno scolastico. Nell’intera vicenda persero la vita, per mano dei terroristi o in conseguenza dell’azione delle truppe speciali, 386 persone, di cui 186 bambini. L’immagine in questione presenta la figura di un bambino avvinghiato al suo soccorritore con alcune ferite sugli arti e tracce di sangue rappreso: «i suoi occhi, privi di lacrime, sono serrati ma non chiusi. Protetti da un’abnorme contrazione delle arcate sopraccigliari, essi trattengono uno sguardo che nega se stesso, che guarda ma non vede, che deve guardare ma non può e non vuole vedere40». Il forte impatto patetico colpisce lo spettatore che tuttavia si sente convocato a prendersi carico dell’immagine, superando l’emozione provocata dalla pregnanza delle figure ritratte; si tratta cioè di mettere da parte «il carattere esclusivo, la saturazione che potrebbe sigillare l’immagine in se stessa senza lasciare alcuno spazio alla domanda che pone41». L’immagine, dunque, attuerebbe il suo potere di testimonianza solo se lo spettatore si trovasse nella condizione di colmare lo scarto che incorre tra il documento e la sua trasformazione in esperienza visiva. È un processo limitato, dichiaratamente lacunoso, provvisorio e rivedibile, ma il cui obiettivo cruciale è di contrastare «i potenti effetti di derealizzazione che caratterizzano lo statuto dei media audiovisivi42» e dunque riabilitare la natura referenziale dell’immagine. Tuttavia, l’operazione di autenticazione – così definita da Montani – è possibile solo in virtù di un sup-plemento di mediazione del testo visivo. Più nello specifico, la bassa definizione dell’immagine di ZONE, la grana spessa di CARGO o la sfocatura di Border necessitano dell’elaborazione della loro natura di documento, grazie a un processo immaginativo che, con le parole di Montani, faccia «lavorare l’interfaccia tra il sensibile e l’intelligibile, tra ciò che è visibile e ciò che non lo è, tra ciò che i nostri sensi ricevono e ciò che ha un “significato”43». È opportuno, dunque, che si attivi e si “autentichi” il carattere testimoniale dell’immagine, che, in altre parole, la natura lacunosa della poor image venga mediata per diventare eloquente e capace di parlare. I tre lavori di Laura Waddington si sviluppano proprio attorno alle nozioni di lacuna e bassa definizione dell’immagine, nuclei nevralgici e problematici che sembrano interpellare l’osservatore: quale relazione si stringe tra questa patina sgranata delle immagini e i soggetti della documentazione? In che modo il documento viene rielaborato, e dunque autenticato, nel senso della sua natura testimoniale? La mancanza di definizione o la sfocatura si pongono qui come processi al negativo, dando vita a un vero e proprio «tratto di paradossale accecamento44» da esplorare in dettaglio.
Montani, a riguardo, considera il film di Michael Moore Farenheit 9/11 (2004) come esempio estremamente esplicativo di rimediazione al negativo, per ricondurre le immagini alla loro originale capacità di testimoniare uno specifico evento; il fatto in questione riguarda la caduta delle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, di cui i media si sono occupati più che ampiamente, spettacolarizzandolo, fino a compromettere la vera natura testimoniale dei documenti e delle immagini a cui il mondo aveva accesso. Marco Dinoi, nell’analizzare questa specifica dinamica, descrive l’immagine dell’evento nella sua tendenza a riempire lo schermo, «senza lasciare scarti, zone d’ombra o di opacità, in cui lo sguardo [possa] installarsi e agire in modo almeno parzialmente autonomo45». L’immagine mediatica sembrerebbe, in questi casi, essere diventata l’unica “finestra sul mondo”, il solo contatto tra il soggetto e il mondo, e lo spettatore, da parte sua, avrebbe accesso solo all’elemento sensazionalistico dell’evento, rarefacendo via via la possibilità di poter elaborare l’esperienza visiva. Egli esperisce così il concetto Heideggeriano di “immagine del mondo”:
[…] con essa intendiamo il mondo stesso, l’ente nella sua totalità così come ci si impone nei suoi condizionamenti e nelle sue misure […] immagine del mondo, in senso essenziale, significa quindi non una raffigurazione del mondo, ma il mondo concepito come immagine46.
“Evento o immagine dell’evento?”, si chiede Dinoi. Moore, in Farenheit 9/11, per ovviare a questa rischiosa indistinguibilità, rielabora i video e la documentazione dell’11 settembre 2001, prima oscurando l’immagine e conservando solamente l’audio delle urla, dei boati e delle deflagrazioni; successivamente invece ad apparire sono solamente i visi e le espressioni di chi in quel momento stava assistendo alla catastrofe dal vivo. Il nero, il negativo, si pongono dunque come volontà di sottrarre «l’elemento più sensazionale e più intimamente spettacolarizzato47», affidando invece al pubblico il compito di completare, tramite uno sforzo cognitivo, la lacuna stessa. Grazie a un effetto straniante e di allontanamento dal pathos che provocano le immagini convenzionali dell’evento, è possibile in definitiva porre l’attenzione sul modo in cui queste vengono presentate. Il risultato di Farenheit 9/11 di Moore rivela il paradossale doppio volto dell’immagine: da una parte la fedeltà alla realtà, dall’altra la sua capacità di emanciparsene per parlarne in senso rinnovato, testimoniale, appunto.
Laura Waddington si sofferma in modo particolare su questa sincope provocata dalla natura sia referenziale – di adesione al dato reale – sia testimoniale dell’immagine: «I wanted, in proposing an alternative vision, to draw attention to the way in which all images construct truth and to shine a light on how we were absorbing the media’s portrayal of places like Sangatte, often without question48». È infatti proprio in questa dichiarazione che emerge uno dei nuclei cruciali del concetto di intermedialità, ovvero, quale rapporto sussiste tra realtà dell’immagine e realtà del mondo? In termini più generali, come si costruisce il processo di autenticazione di un’immagine, così da farla esperire come testimoniale? Brecht prende posizione a riguardo, già nel secolo scorso, sostenendo la necessità di una scena teatrale di essere portata oltre alla mera rappresentazione; o meglio, qualsiasi testo, visivo o teatrale esso sia, esige di essere terminato fuori scena, grazie a un’azione attiva dello spettatore che prolungandone la potenza ne fa «fase germinale di un’azione concreta49».
Montani offre su questo punto un valido suggerimento che tiene conto, e anzi lo definisce come centrale, del carattere di pro-vocazione proprio dell’immagine. In questa specifica facoltà risiede la doppia azione riproduttiva e costruttiva dell’immagine, ovvero la compresenza sia della dimensione aderente al reale, secondo una relazione mimetica, sia della sua dimensione produttiva e autonoma – la capacità cioè di far vedere. Di fronte a questa controversia, Montani sviluppa con sistematica chiarezza, tre considerazioni che mirano a precisare la relazione tra le due dimensioni; in primo luogo, non è possibile definire a livello generale le categorie di “reale” e “simulato”, dal momento che il primo ha sempre una ricaduta sull’altro o se ne ispira. Di conseguenza, e qui si formula la seconda considerazione, «il mondo dell’esperienza si costituisce – sempre e in via di principio – all’incrocio tra qualcosa di dato e qualcosa di costruito50». In conclusione, sarà possibile un processo di costituzione dell’immagine che rielabori il dato reale, o semplificandone la referenza o elevandone la complessità, oppure ancora attivando un momento di pro-vocazione, appunto; vale a dire che durante il processo è possibile osservare l’emersione di «elementi che riluttano a manifestarsi51», indistinguibili, se non grazie al lavoro di pro-vocazione.
La mia idea è che le procedure di autenticazione possano e debbano svolgere una funzione del genere, esercitando un controllo vigile e dichiarato (un controllo critico e riflessivo) sul rapporto tra il riproduttivo e il costruttivo, tra la forza performativa e il patto referenziale: un proporzionamento instabile dei due fattori, di cui non esiste la formula (perché è creativo nel senso più ampio), ma che può configurarsi efficacemente solo sullo sfondo di quel debito dell’immagine nei confronti del suo altro52
È in questo rapporto contrastivo tra «produttivo e costruttivo», tra la «forza performativa e il patto referenziale» che si accede all’alterità del mondo, una dimensione che, secondo Montani, potrebbe essere riassumibile, seguendo il termine usato da Paul Ricoeur, in «debito dell’immagine nei confronti del suo altro53». Con questa definizione si intende una sorta di relazione, o, più precisamente, di patto tra l’immagine e la realtà da cui essa trae esistenza, in una continua tensione produttiva.
DIS–VELAMENTO E TECHNÉ
Does the arrival of a new technology— photography, small video cameras, the Internet, smart phones —completely transform a society? Or at moments in history, do events in the making, call out for and conjure into being the new tools needed to document them—the old forms no longer able to seize them, suddenly rendered redundant, until one day, no longer relied upon, they may be re-visited in a completely fresh way?54
La questione posta da Waddington rispetto all’uso di nuove tecnologie interroga direttamente i modi in cui la fotografia, le mini-videocamere, internet e gli smartphone abbiano trasformato la società: si sta verificando, cioè, un sovvertimento del rapporto tra immagine ed evento, tanto da far esigere a quest’ultimo nuove forme e nuove tecniche di documentazione. La riflessione nasce dalla necessità dell’artista di sostituire la sua vecchia TRV-900 con una nuova camera in alta definizione, un HDV 1080i; le sue «immagini fiammanti, perfette55» tuttavia non conservavano nulla delle contraddizioni e dell’incompletezza tipiche invece delle riprese in bassa definizione. Si giunge quindi a definire l’alta definizione dei nuovi mezzi come un rafforzamento delle narrazioni certe e intenzionali, le quali non lasciano alcuno spazio al dubbio e all’attesa, elementi fondamentali nel processo di autenticazione dell’immagine.
È di nuovo Montani a introdurre a riguardo un ragionamento estremamente lucido soffermandosi sulle «difformità di ordine qualitativo che le nuove tecnologie avrebbero introdotto nel nostro rapporto con la prestazione referenziale delle immagini mediali56». Ben oltre la semplice disputa tra alta e bassa definizione, Montani considera un più ampio spettro di ciò che si pone sotto il termine “nuove tecnologie”, che com-prende cioè tutte quelle tecniche digitali della visione che ne modificano e ne mediano la percezione. Riportando l’attenzione alla teoria heideggeriana sulla téchne, questa non sarebbe da considerare come una riduzione strumentale (un mezzo in vista di fini) o antropologica (un’attività dell’uomo), bensì come un “condurre nella presenza”; si configura cioè come una poiesis, intesa come un “attingere”, “sapere ricevere”, in rapporto di intimità con il concetto di physis, ovvero «il portarsi spontaneo nella presenza dell’ente capace di sorgere in modo autonomo57». Di conseguenza, conferendo alla tecnica questa compresenza di valori, essa può essere facilmente assimilata a un modo dell’aletheuein, del disvelamento. È in questa articolazione concettuale che Heidegger deduce le se-affermazioni, riformulate da Montani: in primo luogo, la physis possiede un carattere manifestativo e disvelante, che sembrerebbe entrare in contrasto con il pensiero moderno; si è abituati a considerare il manifestarsi delle cose come sempre a carico dell’uomo, quando invece lo sforzo di Heidegger è proprio quello di togliere pertinenza a questo soggetto. In secondo luogo, l’aletheia è da considerarsi non come una struttura stabile, ma come un accadere, come cioè una condizione di possibilità, che conserva dunque in sé qualcosa dell’inappartenente e del non padroneggiato. È infine la terza affermazione a fornire un’acuta chiave di lettura per il nostro soggetto in analisi, rispetto alle modalità in cui la téchne, in quanto modo dell’aletheia, accade.
La tesi di Heidegger (1953) è che anche la tecnica moderna […] è un modo di portare nella presenza. Solo che non lo è più in quanto poiesis, in quanto produzione e attingimento “nel seno della physis”, ma lo è in quanto pro-vocazione – heraus-forderung – la quale pretende dalla natura che essa fornisca energia che possa come tale essere astratta e accumulata. Non è più in gioco un produrre, ma un richiedere, uno stellen, un “porre richiedente”58.
Ecco che si fa strada la nozione già citata di pro-vocazione, di cui la téchne si fa portatrice, che instaura un rapporto di debito tra l’immagine e la realtà; le azioni di disvelamento – trasformare, immagazzinare, ripartire, commutare – permettono dunque di non considerare più le immagini e i prodotti della tecnica moderna come oggetti (Gegenstände), ma come un fondo, una risorsa a cui attingere. Questo passaggio di ricognizione della teoria heideggeriana è allora utile per comprende meglio cosa intende Montani con l’espressione «difformità di ordine qualitativo» e quali rischi costituisce l’usufruire della «tecnica moderna». In un mondo «intuito tecnicamente», dove le nuove tecnologie della visione hanno il potere di progettare tecnicamente la sensibilità dello spettatore, è possibile che si giunga a una totale esclusione della dimensione “altra”, intesa come alterità del mondo. Sussisterebbe cioè il rischio che la percezione si riduca alle pertinenze programmate dai dispositivi tecnologici, incorrendo così in una totale «indifferenza referenziale59». Il rapporto tensivo tra immagine e mondo che fonda la natura ambivalente del processo testimoniale dell’immagine viene dunque ridotto al regime di indifferenza, dove la natura referenziale dell’immagine non viene cancellata, ma più precisamente risulta indebolita nella sua costitutiva alterità. Le conseguenze rilevate da Montani sono dunque due: la prima è che vengono prediletti i valori performativi dell’immagine a scapito del criterio di discriminazione tipico del reale; la seconda è la sottrazione al mondo della sua capacità di presentarsi secondo le modalità «dell’incontro, dell’esplorazione, della provocazione60», il cui risultato più rilevante consiste in una vistosa riduzione della capacità di sentire l’alterità del mondo reale, provocando un effetto anestetico.
È a questo punto del ragionamento che riemerge come suggerimento e come domanda la tesi di Casetti e Somaini citata all’inizio61. Esisterebbe una relazione tra l’effetto anestetico causato da un mondo ormai «intuito tecnicamente» e la cosiddetta «numbness» – l’intorpidimento nominato da McLuhan – di cui è causa l’iperdefinizione dei nuovi media? Il punto di contatto sembrerebbe collocarsi proprio in concomitanza del concetto di tecnica, il quale, se dissociato dal suo compito anche referenziale, acquisisce il potere di proiettare lo spettatore nel mondo della rappresentazione, «quasi al punto di poterlo toccare62». L’amplificazione delle sensazioni e l’intensificazione della percezione provocate da mezzi di alta tecnologia possono costituire un ostacolo alla riflessione critica, producendo in questo modo un paradosso con grandi risvolti a livello sociale. McLuhan rileva dunque la necessità di un «immunization», ovvero un antidoto che possa contrastare questa pericolosa deriva, che Montani individua nella natura di “fondo a cui attingere” della tecnica.
The new media and technologies by which we amplify and extend ourselves constitute huge collective surgery carried out on the social body with complete disregard for antiseptic. If the operations are needed, the inevitability of infecting has to be considered. For in operating on society with a new technology, it is not the incised area that is most affected. The area of impact and incision is numb. It is the entire system that is changed. […] To have a disease without its symptoms is to be immune. No society has ever known enough about its actions to have developed immunity to its new extension or technologies. Today we have begun to sense that art may be able to provide such immunity63.
«Today we have begun to sense that art may be able to provide such immunity»: questa affermazione di McLuhan parrebbe affidare all’arte la responsabilità di immunizzare dalle tensio-ni intorpidenti dei media. Riformulando ulteriormente, l’arte intesa qui come téchne può contribuire a riportare lo spetta-tore al ruolo attivo di «destinatario di un appello64», nell’intento di disvelare l’immagine. È legittimo chiedersi tuttavia come l’arte possa essere considerata una «possibile forma di comprensione della tecnica moderna65» nell’atto di contrastare questa dannosa implicazione. Su questo punto si sviluppa dunque l’analisi dei documentari di Laura Waddington, ZONE, CARGO e Border che si prestano ad un’indagine delle relazioni tra tecnologie nuove e obsolete, tra qualità dell’immagine e significati che vengono prodotti. Ci si interrogherà dunque sulle modalità di attivazione del processo di autenticazione e su come queste entrino in relazione con un’estetica sfocata e non definita.
Footnotes
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M. McLuhan, Understanding Media: The Extensions of Man, New York, Toronto, London McGraw Hill, 1964.
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P. Ortoleva, Una forza diversa. La bassa definizione (e la bassa intensità) nella storia dei media, in “Segnocinema”, n.172, 2011, p. 18.
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Ivi, traduzione italiana M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Garzanti, Milano, 1986, p.51
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Ivi, p. 41.
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P. Ortoleva, Una forza diversa. La bassa definizione (e la bassa intensità) nella storia dei media, cit.,
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Ibid.
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Ibid.
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F. Casetti, A. Somaini, The conflict between high definition and low definition in contemporary cinema, in “The International Journal of Research into New Media Technologies” Vol 19, Issue 4, 2013, pp. 415-22.
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Ivi, p. 420.
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Ibid, traduzione mia.
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H.Steyerl, In defense of the poor image, in “e-flux journal” n.10, November 2009 [online www.e-flux. com/journal/10/61362/in-defense-of-the-poor- image/ accesso giugno 2020].
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Ivi, p. 1.
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Ivi, p. 3.
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Ibid .
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Ivi, p.4.
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Ivi, p.6.
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Ibid.
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H. Steyerl, Documentary Uncertainty, in A Prior n.15, 2007, [online: http://magazines.documen- ta.de/frontend/article. php?IdLanguage=1&NrArticle=584 accesso giugno 2020].
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Ivi.
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Ivi.
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Ivi.
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Ivi, traduzione mia di «alternative CNN».
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M. Bertozzi, Documentario come arte: riuso, performance, autobio-grafia nell’esperienza del cinema contemporaneo, Marsilio, Venezia, 2018, p.8.
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J. Le Goff, Documento/Monumento, Enciclopedia Einaudi, Torino, 1978, vol. V, pp. 38-43.
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M. Bertozzi, Documentario come arte: riuso, performance, autobiografia nell’esperienza del cinema contemporaneo, cit., p. 13.
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J. Rancière, Le partage du sensibile, esthétique et politique, Paris, La Fabrique, 2000.
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W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 2000.
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Ivi, p.13.
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M. Bertozzi, Documentario come arte: riuso, performance, autobiografia nell’esperienza del cinema contemporaneo, cit., p. 14.
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N. Dusi, Strategie della defigurazione. Lo sfocato: dinamiche espressive e processi di enunciazione tra pittura e cinema, in “documenti di lavoro” n. 280-281-282, Centro internazionale si semiotica e linguistica, Urbino, 1999, p. 1.
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Ibid.
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A.J. Greimas «Semio- tica figurativa e semiotica plastica», in Fabbri-Marrone (eds), Semiotica in nuce II. Teoria del discorso, Roma, Meltemi 2001;
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N. Dusi, Strategie della defigurazione. Lo sfocato: dinamiche espressive e processi di enunciazione tra pittura e cinema, cit., p. 16.
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Ibid.
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Ibid.
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Ivi, p. 17.
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Ivi, traduzione mia «its dancing grain and stuttered movement».
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L. Waddington, Scattered Truth, part 2a, 2014, [online http://www.laurawaddington.com/article. php?article=67, accesso giugno 2020].
-
P. Montani, L’immaginazione intermediale, Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile, Editori Laterza, Bari, 2010, p. 8.
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Ivi, p. IX.
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Ibid.
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Ivi, p. XIV.
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Ivi, p. XII.
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Ivi, p. 8.
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M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema, cit., p.9, parentesi quadre e corsivo mio.
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M. Heidegger, Sentieri interrotti, Firenze, La Nuova Italia, 1999, pp. 86-88.
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Ibid.
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L. Waddington, Scattered Truth, cit.
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M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema, cit., p. 25.
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Ivi, p. 17.
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P. Montani, L’immaginazione intermediale, Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile, cit., p. 21.
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P. Montani, Bioeste-tica, senso comune, tecnica e arte nell’età della globalizzazione, Carocci Editore, Roma, 2007, p. 66.
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Ivi, p. 68.
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P. Montani, L’immaginazione intermediale, Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile, cit., p. 21.
-
Ivi, p. 23.
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F. Casetti, A. Somaini, The conflict between high definition and low definition in contemporary cinema cit., pp. 415-22.
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Ivi, p. 421, traduzione mia.
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F. Casetti, A. Somaini, The conflict between high definition and low definition in contemporary cinema, cit., pp. 415-22. Cfr. M. McLuhan, Understanding Media: The Extension of Man, McGraw-Hill. New York, Toronto, London, 1964.
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P. Montani, Bioestetica, senso comune, tecnica e arte nell’età della globalizzazione, cit., p. 68. fn 65.Ivi, p. 70.
Source
Bima, Cecilia. “Lacune visive: Bassa definizione per un’etica della testimonianza.” Corso di Laurea Magistrale in Arti Visive, Università Iuav di Venezia, Dipartimento di Culture del Progetto, 2019/2020: pp. 1–124. (Master’s thesis devoted to Laura Waddington’s films Border, Cargo and Zone.)
(An English translation by Marguerite Shore, “Visual Gaps: Low Definition for an Ethos of Bearing Witness,” is also available on Laura Waddington’s website.)
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