Laura Waddington

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Frammenti di cinema resistente

Di Stefania Rimini

Le immagini sono il nostro ‘principio-speranza’, anche quando sono debolissime, sopravvissute nell’ombra.

Georges Didi-Huberman

L’ultimo libro di George Didi-Huberman, Come le lucciole. Una politica delle sopravvivenze, è un testo veramente ispirato, capace in pochi capitoli di riassumere alcuni nodi radicali della filosofia, dell’arte e della politica occidentali, sempre con estrema lucidità e contagioso entusiasmo. Pur non condividendo del tutto la tesi di fondo, secondo cui il celebre articolo pasoliniano delle lucciole segnerebbe la resa dello scrittore di fronte al montare dell’ordine orrendo della società italiana, ovvero l’inizio di un atteggiamento apocalittico culminante nei gironi infernali di Salò o le 120 giornate di Sodoma (Italia, 1975), è indubbio che la prosa appassionata di Didi-Huberman riesca a tracciare un sentiero luminoso di resistenza del pensiero, oggi più che mai necessario e praticabile.

Fra le tante direzioni possibili di una politica delle sopravvivenze (tutte opportunamente argomentate nel testo) quella che più ci tocca, per consuetudine ed esperienza, ha a che fare col regime della visione e prende corpo dalla lettura del capitolo conclusivo del libro, intitolato Immagini. In una progressione a climax ascendente davvero fulminante, Didi-Huberman mette in fila l’impresa narrativa di Charlotte Beradt, che con il suo Il terzo Reich dei sogni redige una sorta di “documento psichico del totalitarismo”; l’esperienza interiore di Bataille, attraversata da quella “volontà di chance” che lo “indusse a lanciare tanti segnali nella notte, come una lucciola che volesse sfuggire al fuoco dei riflettori per meglio emettere i suoi lampi di pensieri”; la prospettiva etica della ‘comunità che resta’, principio elaborato intrecciando l’angelico storicismo di Benjamin con la nozione di ‘indistruttibile’ di Blanchot, non senza la radicale testimonianza della Arendt de L’umanità in tempi bui. La sottile linea rossa che tiene insieme temi e scritti così eterogenei va ricercata in una trama intermittente di narrazioni e immagini che in tutti i casi implica la dialettica luce-ombra, sogno-realtà, metaforiche incarnazioni di comunità e individui resistenti all’orrore del tempo e della storia. Nella costruzione di tale rete ipertestuale (in cui ciò che conta è determinare un principio di sopravvivenza) risuona a tratti la lezione di un testo radicale come Immagini malgrado tutto e viene ribadita ulteriormente la matrice politica di ogni visione. Così ha di recente avuto modo di sostenere Didi-Huberman a colloquio con Isabella Mattazzi in occasione della rassegna Pasolini/De Martino: scienza dei gesti e danza dei conflitti:

Ogni volta che commentiamo un’immagine, in effetti, facciamo della politica. Parlare delle immagini significa, di fatto, ‘prendere posizione’ riguardo all’efficacia di queste stesse immagini sulla comunità. A posteriori, devo dire che la più grande ‘ossessione’ del mio lavoro è stata, ed è tuttora, quella di capire quale sia il rapporto tra dolore e immagine. Non è l’immagine a interessarmi in quanto tale, ma ciò che questa immagine veicola sul dolore degli uomini, sulla sofferenza dell’umano.

Intervistato da Isabella Mattazzi, in altri termini, Didi-Huberman ha rilanciato la necessità di leggere e capire le immagini, riconoscendo in esse non solo un valore estetico ma anche un significato etico, nel quadro di una sociologia dell’immagine inaugurata dalle acquisizioni di Roland Barthes e Susan Sontag (almeno) ma ancora in attesa di necessari aggiornamenti. Tale prospettiva non può non tenere conto del cinema, a cui infatti Didi-Huberman dedica una giusta attenzione già a partire da Immagini malgrado tutto, come attesta il discorso sulle dinamiche del montaggio costruito soprattutto in riferimento ai diversi paradigmi di Histoire(s) du cinéma di Jean-Luc Godard (Francia, 1988-1998) e Shoah di Claude Lanzmann (Francia, 1985).

Nell’ottica di Didi-Huberman il montaggio viene a configurarsi, anche alla luce delle esperienze extrafilmiche di Warburg, Benjamin e Bataille, come strumento di conoscenza, perché “intensifica l’immagine e restituisce all’esperienza visiva una potenza che le nostre certezze o abitudini visibili hanno la tendenza a sedare o a velare” (Immagini malgrado tutto).

Il richiamo a Godard e a Lanzmann, a cui occorre aggiungere per lo meno Nuit et Brouillard di Alain Resnais (Francia, 1955), si lega proprio all’ossessione dichiarata dall’autore, cioè a quella volontà di capire il legame tra dolore e immagine che il cinema, e segnatamente il cinema sulla Shoah, veicola con grande efficacia.

Nel volume Come le lucciole l’autore rinuncia a un apparato teorico robusto, ma la settima arte occupa uno spazio solo apparentemente marginale, perché la densità di rimandi e percorsi dell’ultima sezione culmina nell’esemplarità dello sguardo militante di Laura Waddington, videomaker inglese autrice del video Border, girato nel 2002 nei dintorni di Calais, a Sangatte, presso il campo della Croce Rossa in condizioni di estremo disagio tecnico ed emotivo. Sebbene circoli più volte tra le pieghe del discorso il fantasma di Guy Debord e della sua monitoria Società dello spettacolo, Didi-Huberman ammette l’esistenza di un cinema non compromesso coi sistemi di produzione del consenso, libero pertanto di attivare una feconda connessione tra reale e immaginario, fra presente, memoria e racconto, e lo indica puntualmente come viva testimonianza.

Certo il nome di Laura Waddignton è appena una scintilla, ma abbiamo comunque provato a seguirne la scia, come del resto raccomanda lo stesso autore nelle ultime battute del libro:

“Ci rimangono le immagini di Laura Waddington e i nomi – nei titoli del film – di tutti coloro che ha incontrato. Possiamo” – osserva Didi-Huberman – “riguardare il film un’altra volta, possiamo consigliare di guardarlo, farne circolare i frammenti, che ne genereranno altri: immagini-lucciole”.

Grazie alla generosità della regista, abbiamo recuperato una copia del video, abbiamo potuto leggere tutto lo smarrimento e la forza di immagini non reticenti, spalancate nella notte di un’umanità senza dimora, preda di un solo, divorante desiderio: raggiungere l’Inghilterra, per tornare ad avere un volto e un’identità.

L’odissea degli uomini cespuglio

Quello della Waddington è senza dubbio un cinema della migrazione, concepito come racconto di una condizione innanzitutto esistenziale (l’autrice ha vissuto clandestinamente per molti anni a New York) e poi come attraversamento, come passaggio verso altri luoghi, altri confini. La scelta di utilizzare il video obbedisce al bisogno di pervenire a una piena libertà stilistica e produttiva, distante dal modello del cinema in senso stretto, tanto che addirittura i primi film non prevedono sequenze girate in prima persona, ma solo un paziente lavoro di montaggio. L’erranza del suo sguardo pone al centro dell’obiettivo quelli che Bertrand Loutte ha definito “corps déplaces”, in transito ai margini del mondo, spesso appena riconoscibili dentro i bordi del quadro, come nel caso di Border. Questo video è un esperimento visivo estremamente interessante, innanzitutto per le condizioni tecniche ed emotive in cui è stato prodotto. Il campo di Sangatte, chiuso con la forza nel dicembre del 2002, è infatti – come ha osservato Federica Sossi – una sorta di luogo simbolico, una “metonimia del presente per dire tutte le frontiere del mondo”, abitato da una folla straripante di ‘dannati della terra’. Dal 1999 al 2002 sono passati dal campo circa 63.000 rifugiati, provenienti per lo più da Iraq e Afghanistan e convinti di poter toccare le coste dell’Inghilterra distanti appena ‘due passi’ (come si legge su un cartello dell’autostrada), ma invece spesso irraggiungibili. La dura repressione del governo francese ha infatti reso estremamente difficile ai clandestini l’attraversamento della Manica, causando una serie di gravi ferimenti, di morti violente e dolorose odissee. La permanenza nel campo si è rivelata, dunque, per molti di questi migranti un’esperienza ai limiti della sopportazione: “A Sangatte si viveva da cani – annota Fabio Raimondi nel suo articolo Ambigua normalità. La chiusura di Sangatte – di sicuro non vi hanno fatto vedere dove ci tenevano”.

Chi ha provato per prima a mostrare lo stato d’emergenza di Sangatte è Laura Waddington, che si è mimetizzata per lunghi mesi nella ‘giungla’ del campo, tra i rifugiati. Una delle rare consolazioni per questi uomini in fuga è stata allora la presenza vigile della macchina da presa della regista, pazientemente posata su un volto o un corpo opaco, “nascosto – per dirla ancora con Federica Sossi – tra i cespugli, quasi cespuglio”. L’esito di tale ‘pedinamento’ visivo è una narrazione sconvolgente, secondo Pablo Suárez quasi “un’opera espressionista, con un design visivo e sonoro che espone mirabilmente il dolore e la sofferenza degli altri come se fosse tua”.

Il racconto procede, infatti, per quadri di fulminante bellezza; a scandire le immagini ci pensa la musica di Simon Fisher Turner, una sorta di basso continuo spezzato a tratti dalla voce della Waddington, sempre accorata, partecipe, mai retorica. L’assenza di un plot organico dà al racconto la forma di un’allucinazione, in cui ciò che conta non è la logica del raccordo ma lo stream of consciousness, l’affollarsi sullo schermo di ombre, fiati, vento e terra. La prima sequenza del video è una sofferta immersione tra il verde cupo della boscaglia; l’obiettivo segue i movimenti di un rifugiato accucciato nell’erba, in attesa di poter saltare su un treno in corsa. La grana delle immagini consente di distinguere solo il profilo dell’uomo, ma basta intravedere i contorni della figura per sentire tutto il brivido di una situazione assurda. I bruschi passaggi di luce, il contrasto fra il cielo rossastro e il campo scuro danno al video una intensa connotazione figurativa, che lascia senza fiato.

Anche la macchina da presa respira con affanno, sobbalza e trema in uno slancio empatico davvero impressionante. Border è in effetti un raro esempio di armoniosa coincidenza fra piano etico ed estetico: la toccante qualità delle immagini (sgranate, instabili, a tratti addirittura rallentate) è sempre al servizio dell’emozione e così può accadere che la fragile bellezza di silhouettes schiacciate contro l’orizzonte diventi un grido, un lampo, una lucciola.

Nel raccontare l’angoscia dei rifugiati, la loro esistenza negata, la regista rifiuta la tentazione dello spettacolo, lavorando quasi per sottrazione, consapevole di poter soltanto suggerire lo spaesamento e l’ambiguità di quel non-luogo. Paradigmatica in questo senso è la sequenza della carica della polizia, in cui per la prima volta ci vengono mostrati i volti dei clandestini, ammassati e vocianti, e dei poliziotti, stretti nelle loro divise.

Improvvisamente alla musica subliminale di Fisher Turner si sostituiscono le grida in presa diretta dei rifugiati, urtati e colpiti dai manganelli; nonostante le ripetute cariche della polizia la macchina da presa danza, sublima la violenza degli affondi attraverso un gioco di colori, ritmo e sfumature. Prima di tornare a pedinare i margini del campo, c’è il tempo per poche immagini annegate in un silenzio irreale: qui la danza della macchina da presa diventa macabra, restituendo tutta l’insensatezza e la banalità del male.

Pur nella frammentarietà dei brani, Border descrive con insistenza il cammino erratico dei rifugiati lungo le autostrade di Sangatte, e in queste prolungate inquadrature c’è tutto il senso del duro attacco della Waddington contro le menzogne e i misfatti della globalizzazione. Come attesta peraltro quanto sostenuto dall’autrice nell’intervista concessa a Filippo del Lucchese:

D: C’è un forte contrasto nel film tra individui e merci che viaggiano rapidamente attraverso il canale della manica, sui treni, ad una velocità pari a quella della globalizzazione, e le persone che cercano di afferrare le estremità di quei treni, sperando di riuscire a superare la frontiera, portati via alla stessa velocità.

R: […] Sì, io ero costantemente colpita da questo contrasto, dalla collisione di questi due mondi in un unico spazio. I rifugiati attraversavano il campo per lo più come fantasmi e io ho cercato di rappresentarli così. È stato molto difficile per me capire la coesistenza di queste due realtà. Nel film ci sono molti fari di automobili. Per i rifugiati che ho incontrato, queste luci rappresentano i francesi, con cui loro hanno avuto sporadici contatti o addirittura nessuno. Non ho mai visto dei francesi camminare a piedi lungo quelle strade. C’è una forte sproporzione tra i rifugiati, che camminano sempre a piedi, e i fari delle macchine che passano accanto a loro in continuazione (leggi in rete il testo dell’intervista).

Non è facile sottrarsi alla luce abbagliante dei fari, segno e forma di un potere cieco e violento, a cui si somma l’indifferenza dei francesi, protetti dalle loro case e da auto che sfrecciano via veloci. Alla corsa inarrestabile del mondo gli ‘uomini cespuglio’ sanno opporre il passo lento della marcia, la paura di restare a terra, il freddo della sera e, in rari momenti di tetro entusiasmo, il raggio di una danza, luminosa e intermittente come un verme di luce.

Allegria di naufragi

E proprio in una livida danza sull’acqua si trasforma l’avventurosa esistenza di Bilal, raccontata da Welcome (Francia, 2009) di Philippe Lioret, sullo spunto di un vero fatto di cronaca.

Bilal (Firat Ayverdi) è un giovane curdo iracheno, fuggito clandestinamente dal suo paese per tentare di raggiungere l’amata Mina (Derya Ayverdi), emigrata con la famiglia a Londra. Bloccato dalla polizia a Calais, dopo aver cercato di passare la frontiera chiuso dentro un camion, si rende conto che l’unica possibilità per realizzare il suo sogno è attraversare la Manica a nuoto. È qui che entra in scena Simon (Vincent Lindon), ex promessa del nuoto e ora istruttore della piscina comunale della città, con cui il ragazzo intreccia un rapporto fatto di complicità e tenerezza. Il sacrificio di Simon, deciso a proteggere Bilal anche a costo della libertà personale (per effetto dell’articolo L622/1 della legge sull’immigrazione del governo Sarkozy si rischiano infatti fino a cinque anni di carcere se si offre aiuto ai clandestini), non basta ad evitare la tragedia: il ragazzo muore in mare a pochi passi dalla costa inglese.

Se è vero quel che scrive Robert Bresson nel suo Note sul cinematografo – e cioè che “Le immagini si rafforzano trapiantandosi” – allora non possiamo non considerare accanto ai lampi luminosamente tetri di Border la plumbea atmosfera di Welcome, che sembra quasi un prolungamento dello sguardo della Waddington. Sebbene si passi dal libero sperimentalismo del video al rigore della fiction cinematografica, i temi, i luoghi e i contorni della vicenda narrata da Lioret corrispondono alle intenzioni di Border e soprattutto producono un analogo effetto di intermittenza visiva, lasciando allo spettatore una galleria di immagini-lucciole.

Il film disegna, infatti, un “quadro di solitudini e resistenze”, come ebbe modo di notare Giuseppe Gariazzo: all’isolamento geografico di Bilal, accentuato dalla corporatura esile che stenta a farsi largo in mezzo alla folla di disperati, fa da pendant il vuoto emotivo di Simon, uomo schivo, rassegnato a trascinare la propria esistenza ai bordi di una piscina e per di più incapace di opporsi al divorzio dalla moglie Marion (Audrey Dana), nonostante non abbia mai smesso di amarla. La faccia pulita di Bilal buca lo schermo, è il segno evidente di una rabbia giovane, di un piglio tenace e risoluto; i tanti primi piani disseminati per tutta la durata del film contribuiscono a illuminare il destino del personaggio, raccontandoci i silenzi, le ansie, nonché il bruciante desiderio di non arrendersi all’evidenza dei fatti. L’ostinata resistenza del ragazzo finisce per toccare il cuore di Simon, per smuovere l’inerzia a cui ha consegnato le sue abitudini; può darsi che all’inizio la scelta di aiutarlo sia dettata dalla speranza di riconquistare Marion (“Si è fatto quattromila chilometri a piedi e ora vuole attraversare la Manica a nuoto. Io non ho saputo neanche attraversare la strada per fermarti”), ma poi l’incontro fra i due assume sempre più i contorni (e la grazia) di un legame di sangue.

L’accoglienza evocata dal titolo è appena un miraggio, anzi suona perfino sarcastica a ben guardare i grigi scenari di Calais, il subdolo razzismo dei vicini di casa, la rassegnata intransigenza dell’ispettore di polizia (Thierry Godard), costretto dalla legge a sanzionare Simon. Lioret sa bene che Calais è il luogo simbolo dell’immigrazione nazionale, non esita a definirla la frontiera messicana francese, anzi addirittura si spinge ad azzardare un paragone pesante: “quel che accade oggi a Calais mi ricorda ciò che è accaduto in Francia durante l’occupazione tedesca: aiutare un clandestino, ha affermato Philippe Lioret (lo riporta Ignazio Senatore), è come aver nascosto un ebreo nel ’43, si rischia il carcere”. Questa dura presa di posizione nei confronti del governo viene filtrata da precise scelte estetiche, che riguardano soprattutto la resa fotografica delle immagini, l’espressività degli attori, i tagli delle inquadrature, per cui il film finisce con l’essere il racconto di “due storie d’amore contrastato che si incontrano nell’assurdo clima sociale attuale”, come ha sostenuto ancora Philippe Lioret in Allenarsi all’accoglienza. La perfetta macchina drammaturgica dell’opera prevede un inizio in medias res: le prime inquadrature del film, strette in un cinemascope freddo e incombente, descrivono il sistema delle strade di Calais, con ponti e sopraelevate, camion e navi, imbarchi e controlli, retate della polizia.

Il traffico di uomini e merci è come raggelato dalla fotografia di Laurent Daillan, capace di sottolineare il labirintico alveare del porto, quel groviglio di nebbie e luci che incombe sui clandestini, tanto che, come ha affermato Valentina Torlaschi, “per resistere in questa terra di mezzo di perenne attesa, di permanenza tutt’altro che temporanea, asfissiante e cupa, si è costretti a vivere in apnea”. Una delle sequenze più toccanti del film descrive, infatti, il tentativo di Bilal e di altri clandestini di superare la dogana nascosti dentro un camion; per sfuggire ai sofisticati controlli della polizia i personaggi sono costretti a trattenere il respiro dentro sacchetti di plastica, ma Bilal non resiste, memore di passate torture (“Quando sono partito dall’Iraq mi hanno preso i militari turchi. Mi hanno legato le mani e mi hanno messo un sacco nero in testa. Sono rimasto così per otto giorni”), e il gruppo viene arrestato.

La vita di Bilal si riduce a una questione di fiato e così il giovane comincia un duro training, sotto lo sguardo prima svogliato e poi complice di Simon; è l’acqua a segnare il battesimo del suo corpo, a scandire il ritmo del suo respiro, in una progressione visiva che scuote e commuove.

Fra i tanti fotogrammi che descrivono la faticosa resistenza di Bilal ci sembra che quattro sintetizzino al meglio il canone luminoso costruito da Didi-Huberman nell’ultimo capitolo di Come le lucciole; la forza di questi piani risiede innanzitutto nella volitiva resistenza del corpo di Bilal, nello slancio che lo conduce a vivere un sogno di libertà. Si tratta di inquadrature clandestinamente sottratte allo sguardo dei personaggi, in cui il protagonista tenta di sopravvivere malgrado tutto. Nelle prime due il corpo di Bilal, appena illuminato dai fari della piscina, assomiglia davvero a una lucciola, la sua luce solca la superficie trasparente dell’acqua trasformando il perimetro della vasca in un recinto magico.

Le ultime due, invece, restituiscono tutta la sproporzione fra i riflettori del potere e l’intermittenza aerobica della sopravvivenza di Bilal. Nonostante il giovane scompaia inghiottito dalla marea, le immagini testimoniano la forza del suo desiderio e Welcome resta un film che, come ha notato Giuseppe Gariazzo, “invita a respirare, a trovare dentro di sé il respiro giusto per non arrenderci”.

Lo sa bene Simon, che grazie al sacrificio di Bilal ritroverà forse l’amore spezzato di Marion. L’ultima inquadratura del film è per lui, per il suo sguardo sospeso fra dolore e speranza, a cui ci piace sovrapporre i versi-lucciola di Ungaretti: “E subito riprende / il viaggio /come / dopo il naufragio / un superstite / lupo di mare”.

Riferimenti bibliografici

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F. Raimondi, Ambigua normalità. La chiusura di Sangatte
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Allenarsi all’accoglienza, a cura di V. Torlaschi, in «Duellanti», 58, gennaio 2010, pp. 50-51
C. Weathley, Welcome, «Sight & Sound», XIX, 11, novembre 2009, p. 81
A. Zeppenfeld, Welcome, in «Cahiers du cinema», 643, marzo 2009, p. 41

Source

Rimini, Stefania. “Frammenti di cinema resistente.” La Rivista di Engramma, no. 84 (Lucciole malgrado tutto), October 2010: pp. 101–112. https://www.engramma.it/eOS/index.php?id_articolo=1860. (The article was later published, with light revisions, in the book Immaginazioni: Riscritture e ibridazioni fra teatro e cinema. Acireale: Bonanno Editore, 2012. See “Selected Books.”)

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