Come le lucciole: Una politica delle sopravvivenze
Di Georges Didi-Huberman
Tradotto dal francese da Chiara Tartarini
Estratto pp. 92 -96
Non viviamo in un mondo, ma perlomeno tra due mondi. Il primo è inondato di luce, il secondo attraversato da barlumi. Al centro della luce, così ci fanno credere, si agitano quelli che oggi, per antifrasi crudele e hollywoodiana, chiamiamo people, o stars – le stelle, come sappiamo, portano nomi di divinità -, sui quali trabocchiamo di informazioni il più delle volte inutili. Polvere negli occhi che fa sistema con la gloria efficace del «regno»; ci chiede solo una cosa, di acclamare all’unanimità. Ma ai margini, cioè attraverso un territorio infinitamente più esteso, avanzano molti popoli sui quali sappiamo troppo poco, e dunque per i quali una controinformazione appare sempre più necessaria. Popoli-lucciole quando si ritirano nella notte, che cercano come possono la loro libertà di movimento, fuggono i riflettori del «regno», fanno di tutto per affermare i loro desideri, emettere i loro lampi di luce e indirizzarli ad altri. Ripenso improvvisamente — è solo un ultimo esempio, ma ce ne sarebbero molti altri — alle poche, fragili immagini che compaiono nella notte nel campo di Sangatte, nel 2002, filmate da Laura Waddington sotto il titolo di Border56
Laura Waddington ha trascorso diversi mesi nelle aree adiacenti al campo della Croce Rossa di Sangatte. Filmava i rifugiati afghani o irakeni che tentavano disperatamente di sfuggire alla polizia e attraversare il tunnel della Manica per raggiungere l’Inghilterra. Di tutto ciò, non ha potuto trarre che immagini-lucciole, immagini sull’orlo della scomparsa, sempre mosse dall’urgenza di fuga, sempre vicine a coloro che, per portare a termine il loro progetto, si nascondevano nella notte e tentavano l’impossibile a rischio della vita. La «forza diagonale» di questo film va a scapito della chiarezza, ovviamente: necessità di un’attrezzatura leggera, otturatore aperto al massimo, immagini sporche, messa a fuoco difficoltosa, sgranature ovunque, ritmo irregolare che produce qualcosa di simile al ralenti. Immagini della paura. E tuttavia immagini-bagliori. Vediamo ben poco, solo frammenti: corpi appostati ai lati di un’autostrada, esseri che attraversano la notte per raggiungere un improbabile orizzonte. Nonostante l’oscurità diffusa, non sono corpi resi invisibili ma «scintille di umanità» che il film, appunto, riesce a fare apparire, anche se debolmente e fugacemente.
In questi corpi della fuga non appare altro che l’ostinazione di un progetto, il carattere indistruttibile di un desiderio. Appare anche la grazia, talvolta: grazia nascosta in ogni desiderio che prende forma. Bellezze gratuite e inattese, come quando un rifugiato curdo danza nella notte, nel vento, con la sua coperta come unico drappeggio: come se fosse l’ornamento della sua dignità e della gioia, che, in fondo, chissà dove, esiste malgrado tutto (fig. 2). Border è un film illegale che è attraversato, in realtà, da tutti gli stati della luce. Da un lato, vi sono quei bagliori nella notte: infinitamente preziosi, perché forieri di libertà, ma anche angoscianti, perché sempre sottoposti a un pericolo palpabile. Dall’altro — come nella situazione descritta da Pasolini nel 1941 —, vediamo i «feroci riflettori» del regno, o della gloria: i fasci delle torce della polizia nella campagna, un implacabile raggio di luce che, da un elicottero, spazza via le tenebre circostanti. Anche le semplici luci delle case, i lampioni o i fari delle automobili in transito ci serrano la gola, nel contrasto straziante – visivamente straziante – che si instaura con tutta questa umanità gettata nella notte, rigettata nella fuga.
Questi contrasti negli stati della luce si alternano a un sorprendente contrasto sonoro, in cui due stati della voce conferiscono al racconto di Laura Waddington tutta la sua sottigliezza dialettica, a dispetto dell’estrema semplicità delle scelte formali. Da una parte, c’è la voce stessa dell’artista: una voce di donna molto giovane, musicale anche se senza ostentazione, straordinariamente tenera. Essa si presta umilmente alle esigenze della testimonianza: ci racconta la sua storia e i suoi limiti intrinseci; non giudica, non prende mai il sopravvento su ciò che racconta; si rivolge a esseri particolari, incontrati, chiamati per nome (Omar, Abdullah, Mohamed), senza che venga omessa la terribile prospettiva del fenomeno nel suo complesso (veniamo a sapere che circa sessantamila rifugiati sarebbero passati per Sangatte). Talvolta, quando noi, gli spettatori, veniamo abbagliati da un’inquadratura sovrapposta, Laura Waddington ci racconta come gli stessi rifugiati tornavano al campo accecati dai gas lacrimogeni. Improvvisamente, nel bel mezzo di questo racconto e della sua voce — che non riesce a non evocarmi il lamento lirico con cui la poetessa Forough Farrokhzad accompagnava il suo impietoso documentario su un lebbrosario iraniano, dal titolo La casa è nera — esplode una sequenza girata in presa diretta nel cuore di una manifestazione di rifugiati contro l’imminente chiusura del campo. Allora non ci saranno più barlumi ma esplosioni, flash; non ci saranno più parole ma grida urlate a tutta forza, a perdifiato, gratuite. Anche la macchina da presa partecipa alla manifestazione e si dimena. L’immagine ne esce maltrattata, in pericolo: tenta di mettersi in salvo a ogni inquadratura. Più tardi tornerà il silenzio. Vedremo un gruppo di rifugiati – ma non dovremmo ancora chiamarli così, dovremmo ancora chiamarli «fuggitivi» -, guidati da un trafficante di uomini, allontanarsi nelle tenebre verso un orizzonte vagamente luminoso. La loro meta è laggiù, al di là, dietro quella linea. Anche se sappiamo bene che quel «laggiù», per loro, non sarà sempre un rifugio. Finiranno per confondersi con l’oscurità delle boscaglie e la linea dell’orizzonte. Spunteranno ancora dei fari. Il film si chiuderà su qualcosa di simile a un fermo-immagine [arrêt]57 accecante.
Immagini, dunque, per organizzare il nostro pessimismo. Immagini per protestare contro la gloria del regno e i suoi fasci di luce cruda. Sono scomparse le lucciole? Certamente no. Alcune sono proprio accanto a noi, ci sfiorano nel buio; altre se ne sono andate oltre l’orizzonte, cercando di ricostituire altrove la loro comunità, la loro minoranza, il loro desiderio condiviso. Ci rimangono le immagini di Laura Waddington e i nomi – nei titoli del film – di tutti coloro che ha incontrato. Possiamo riguardare il film un’altra volta, possiamo consigliare di guardarlo, farne circolare i frammenti, che ne genereranno altri: immagini-lucciole.
Footnotes
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Cfr. Laura Waddington, Border, 2004, video, 27’; Georges Didi-Huberman, Figurants n Laurent Gervereau (a cura di), Dictionnaue mondiale des images, Nouveau monde Editions, Paris 2006, pp. 398-400.
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[Arrêt nel lessico cinematografico, significa «fermo-immagine»; in quello più corrente, «fermo», «fermata», e «arresto», anche nel senso di «cattura» e «detenzione». N.d.T. ].
Source
Didi-Huberman, Georges. Survivance des lucioles. Paris: Éditions de Minuit, 2009: pp. 134–138.
Didi-Huberman, Georges. Survival of the Fireflies. Translated by Lia Swope Mitchell. Minneapolis: University of Minnesota Press/Univocal, 2018: pp. 83–87.
Available in translation: Come le lucciole: Una politica delle sopravvivenze. Turin: Bollati Boringhieri, 2010; Sobrevivência dos vaga-Iumes. Belo Horizonte: Editora UFMG, 2011; Supervivencia de las luciérnagas. Madrid: Abada Editores, 2012; Überleben der Glühwürmchen. Paderborn: Brill/Wilhelm Fink, 2012; Het voortleven van de vuurvliegjes. Amsterdam: Octavo Publicaties, 2022; Ateşböceklerinin Var Kalma Mücadelesi. Istanbul: Norgunk Yayıncılık, 2023.
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