LACUNE VISIVE. BASSA DEFINIZIONE PER UN'ETICA DELLA TESTIMONIANZA II. ZONE (1995): un Esercizio di Disapprendimento per «Riamare gli Occhi»

Cecilia BimaUniversità Iuav di Venezia Corso di Laurea Magistrale in Arti Visive Dipartimento di Culture del Progetto, 2019/20.

By Cecilia Bima
 
ZONE (1995): UN ESERCIZIO DI DISAPPRENDIMENTO PER «RIARMARE GLI OCCHI»

Estratti

p.37-40
 

è una gioia senza limiti prendere dimora nel numero, nell’ondeggiante, nel movimento, nel fuggitivo e nell’infinito. […] vedere il mondo, esserne al centro e restargli nascosto1. (C. Baudelaire, Il pittore della vita moderna)
 

ZONE (1995) è un esperimento, un tentativo di rivalutazione e scardinamento da parte dell’artista degli insegnamenti acquisiti durante gli anni di formazione nella pratica del cinema. Più concretamente, il documentario mette in moto delle dinamiche che mirano a smantellare e questionare le basi del linguaggio cinematografico convenzionale; nel 1994 Laura Waddington si imbarca a bordo del transatlantico Queen Elizabeth 2 che da New York arriverà fino alle coste dell’Inghilterra. Decide in questa occasione di documentare il suo viaggio tramite una tecnica non convenzionale: utilizza infatti una microcamera cucita all’interno della fodera di un gilet di fattura turca, ricoperto da piccoli specchietti. Rimuovendo uno di questi specchietti la microcamera riesce ad “affacciarsi” sul mondo, rimanendo invisibile al resto delle persone; registra tutti i movimenti dell’artista a bordo della nave non per-mettendole però di avere controllo su ciò che viene ripreso. Collegata a un registratore da 8mm posizionato all’interno di un marsupio, la microcamera ricopre così il ruolo di blind eye – un occhio cieco – permettendo all’artista di emanciparsi dalle tecniche di ripresa tradizionali e, soprattutto, imponendole una relativa inconsapevolezza rispetto al tipo di immagini catturate; «Wandering the decks, I learnt to frame with the movement of my body, my shoulders hunched over to prevent the camera from sloping up towards the sky1 ». Il corpo deve quindi sforzarsi di mantenere una postura specifica, con le spalle ingobbite, per evitare che la camera posta tra il petto e la pancia si rovesci verso l’alto; deve inoltre prendere confidenza con il funzionamento dello strumento, veicolando i movimenti e prevedendo, senza l’organo della vista, il risul-tato delle riprese.

In un secondo momento l’artista attua un processo di rimediazione del footage ottenuto: filma una seconda volta, con un’altra videocamera, le sequenze originarie proiettate su uno schermo ottenendo un’opera nuova. Le immagini si presentano di conseguenza deformate e opache, sull’orlo della disgre-gazione, come poste sotto uno spesso filtro che ne abbassa notevolmente la definizione. Se già in partenza, quindi, risultavano mosse e sfocate per via del mancato controllo sulla camera, subiscono un’ulteriore diminuzione di definizione in seguito al processo di rimediazione attuato successivamente.

Dal materiale ottenuto, Laura Waddington ricava infine una narrazione, una storia di finzione, che si allaccia alla docu-mentazione iniziale dando vita a un oggetto nuovo, questionando profondamente la natura del documentario e sfocandone il limite tra reale e fittizio. Inserisce così un apparato testuale di sottotitoli insonorizzati, che riportano, come in un monologo in prima persona, i pensieri di un personaggio alla ricerca di qualcuno. Ripensamenti, perdita dell’orientamen-to e amnesie caratterizzano la narrazione, così da entrare in stretta relazione con lo statuto “disgregato” e indefinito delle immagini. Tre sono quindi le stratificazioni di cui si compone ZONE, frutto di tre azioni di montaggio e rimediazione, una successiva all’altra.

Scrutare la realtà tramite l’occhio fissato al corpo, aggirarsi sul ponte della nave catturando e documentando gli avvenimenti circostanti senza che gli altri ne siano consapevoli: le immagini che risultano da queste azioni sono tremolanti e non definite, come a ricalcare la traiettoria di un gesto anomalo e sperimentale, come se l’artista delegasse a degli arti normal-mente non adibiti alla vista un atto che, al contrario, prevederebbe l’uso attento e controllato dell’occhio. Nella sequenza iniziale (fig.1) l’inquadratura instabile riprende la figura di un uomo che cammina in un contesto presumibilmente urbano; dopo alcuni secondi la visibilità della scena già compromessa in partenza viene meno, per via di un oscuramento della parte superiore dell’inquadratura: è possibile che la microcamera in quel momento sia inavvertitamente scivolata all’interno del marsupio per via di un movimento disattento o troppo brusco, nascondendo parzialmente la scena. L’ottava sequenza (fig.2), in modo analogo, testimonia il forte impatto della gestualità sulla visibilità. L’ambiente sembrerebbe quello di una lussuosa sala da pranzo della nave, dove l’osservatore è sottoposto a dei vertiginosi ondeggiamenti e cambiamenti di direzione, le luci scorrono veloci sullo schermo come se fossero macchie e le riprese ruotano rapidamente dando vita a un effetto quasi danzante. Il corpo dell’artista compie dunque numerose torsioni e cambiamenti di postura, testimoni di un’inquietudine che, a ben vedere, caratterizzerà tutto l’andamento del film.

Vengono quindi messi in discussione, e anzi profondamente questionati, le nozioni basilari della «modalizzazione dell’a-zione visiva»: punto di vista, prospettiva e focalizzazione. Come ricorda Omar Calabrese, il primo concetto designa «uno sguardo orientato sul mondo», mentre il secondo è il conseguente «orientamento spaziale degli oggetti osservati», i quali a loro volta originano la focalizzazione, ovvero «la messa a fuoco degli oggetti osservati2». Queste tre componenti dello sguardo, quindi, perdono, oltre che di significato, anche di intenzionalità e controllo da parte del soggetto. Lo sguardo non più umanizzato assume caratteri macchinici, tanto che il suo orientamento sul mondo si rivolge inevitabilmente dal basso verso l’alto: si tratta di una prospettiva in cui gli oggetti osservati occupano una posizione non studiata e quasi casuale, l’occhio della regista cioè non esercita alcun potere sul prodotto delle riprese. Di conseguenza, la focalizzazione risulta intermittente e discontinua, mai veramente mirata o consapevole. ZONE spinge dunque a interrogarsi se queste tre componenti radicali dello sguardo valgono ancora come fondamenti dell’azione visiva, poggiando le basi su al-cuni precedenti. La visione macchinica è infatti al centro di una lunga tradizione cinematografica, che a partire dal movi-mento dadaista ridefinisce i limiti e le possibilità dello sguardo; in primo luogo, Entr’acte (1924) di René Clair, considerato manifesto del cinema dada, dà vita a un susseguirsi di fotogrammi quasi danzanti – a tratti non molto distanti dall’instabilità di ZONE – che si dispiegano nel pieno della loro libertà. Emancipata dalla volontà di raccontare una storia, l’immagi-ne diventa essa stessa protagonista del film, associandosi, di-sgregandosi e scomponendosi. Entr’acte _diventa così l’espres-sione di un “cinema automatico”3, il cui interesse principale è il ritmo dato dalla danza di fotogrammi alternati, suoni e luce attraverso il montaggio. Rimanendo nell’orizzonte delle avanguardie di inizio secolo, anche Dziga Vertov, in _L’uomo con la macchina da presa (1929), dà luogo a un’equazione tra tecnologie, visione, rappresentazione e percezione4 (fig.3). David Tomas la definisce un’operazione interessante, per via della peculiare articolazione che si instaura tra elementi biologici e tecnologici – occhio e macchina – e «tools for thinking (hypotheses)5».

This metaphor simultaneously represents the power of thought to construct a representation of itself as an autonomous “intelligence” that can project itself beyond itself by taking the form of a compact, compound image6.

La stessa attenzione alla tecnica cinematografica di Vertov si ritrova anche nel caso de La Région Centrale (1971) di Michael Snow, dove si riproduce la visione di una macchina che ruota in tutte le direzioni. Qui, Snow governa la camera da remoto grazie a un dispositivo chiamato activating machine, il quale permette di muovere qualsiasi tipo di camera con rotazioni di 360 gradi, in verticale e in orizzontale (fig.4). Sia Vertov che Snow questionano l’apparato sensoriale dello spettato-re, proponendo delle esperienze visive non più associabili al convenzionale paradigma della “naturale” visione dell’occhio umano, bensì dei prodotti sperimentali derivati dalle possibilità ottiche e percettive della macchina. Tale embricazione tra sguardo e camera non si verifica però in maniera analoga in ZONE, dove è invece il corpo a farsi diaframma e ad esercitare nuove possibili forme di testimonianza. La prossimità della videocamera al corpo rende infatti l’ibridazione tra corpo, sguardo e macchina più complessa rispetto alla relazione instaurata da Vertov e Snow, dove la capacità di vedere viene delegata esclusivamente al dispositivo tecnico, risultando, di conseguenza, controllabile e prevedibile. L’uomo con la macchina da presa è, infatti, il manifesto per un nuovo cinema che si lascia alle spalle la finzione e ogni tentativo di intratteni-mento, a favore invece di una pratica didattica e educativa, per una riflessione sul mezzo stesso del cinema. La Région Centrale , diversamente, è un vero e proprio saggio sulle potenzialità percettive. La camera di Snow arriva anche dove l’occhio non può arrivare, così che l’esperienza visiva risulti quasi psichedelica e immersiva. Come scrive infatti Tomas, «La Région Centrale was able to trigger physiological effects that mimicked a body’s sensory responses to a gravityless open-ended three-dimensional space7». Benché questa tradizione cinematografica, dell’occhio che si fa macchina, costi-tuisca un orizzonte di riferimento per Laura Waddington, è tuttavia la componente corporea – assente nelle opere citate – a segnare significativamente l’esperienza documentaria di ZONE. L’adesione della macchina al corpo instaura uno stretto rapporto tra la dimensione organica e umana con quella tecnica del dispositivo, portandole quasi a una sovrapposizione. Tuttavia, è proprio per via di questa ibridazione che si verifica la perdita del controllo dell’occhio sull’atto cinemato-grafico: se infatti nei casi di Vertov e Snow la macchina è un prolungamento della vista, che ne amplifica le potenzialità, Waddington affida alla camera ogni prerogativa dell’occhio, che perde dunque ogni padronanza sul mezzo. La visione si fa macchina, certamente, ma è il corpo che governa il gesto, provocando una “defamiliarizzazione” sia nell’atto del vedere, che nell’atto di riprendere[…]
 
p. 41-44
 
Per altri versi, invece, l’attitudine di Laura Waddington, possiede alcuni trat-ti che pongono il suo lavoro sotto un’altra luce: se è vero che il corpo/macchina di cui si serve, mira a scardinare l’atto di fare film dal regime egemone dell’inquadratura controllata, d’altra parte, il suo incedere sul ponte e all’interno della nave appare come quello controverso del voyeur : «vedere il mon-do, esserne al centro e restargli nascosto10».

Che cosa implica questa scelta? Potrebbe essere interpretata come una riproduzione dello sguardo del mitico Argo Panop-tes, che per via dei suoi innumerevoli occhi sparsi lungo il corpo possiede il potere di vedere sempre e dappertutto? Entrambi, Argo e lo sguardo configurato da ZONE, parrebbero condividere la stessa capacità di vedere, o meglio di spiare, l’uno senza essere visto, l’altro nascondendo il suo occhio macchinico dentro un marsupio. O ancora, la bassa definizio-ne, l’aspetto monocromo e gli aloni sfuocati richiamerebbero esplicitamente i caratteri delle videocamere di sorveglianza. C’è dunque da chiedersi se la volontà di “defamiliarizzazio-ne” e di scardinamento di certe logiche del fare film non rinvii invece visivamente ad alcune dinamiche dei dispositivi di controllo.

Le fotocamere di sorveglianza, come dimostra il lavoro di Harun Farocki, rilevano uno spostamento del regime dello sguardo come prerogativa dell’umano, al software. È affida-to dunque a una macchina il compito sia di sorvegliare, sia di osservare le immagini registrate. Prendono vita in questo modo nuove forme immaginali, quelle che Farocki definisce “operational images”:

the machines were starting to see for themselves. Harun Farocki was one of the first to notice that image-making machines and algorithms were poised to inaugurate a new visual regime. […] In fields from marketing to warfare, human eyes were becoming anachronistic. It was, as Farocki would famously call it, the advent of “operational images”11

È alle macchine, degli oggetti inorganici, che viene delegato il compito di scrutare la realtà: la macchina, cioè, inizia a ve-dere autonomamente.

È proprio questo, tuttavia, lo scarto tra le due tipologie di im-magini in questione, quelle in bassa definizione, sgranate e abbozzate prodotte dalle riprese di Waddington, segnano la grande differenza con i dispositivi di controllo di impronta voyeristica: se gli occhi panottici sono sempre aperti e vigili, nulla sfugge e tutto appare loro nitidamente, nel caso di ZONE invece non è così. Quelle immagini non sono il prodotto di uno sguardo consapevolmente inquisitorio, bensì il frutto di un corpo in movimento, che agisce nello spazio e interagisce di conseguenza con oggetti e persone. Non è la macchina “a vedere per se stessa”: il processo di ripresa e rie-laborazione dell’immagine è infatti tutt’altro che macchinico, ma testimonia invece l’irrompere del corpo, il fattore umano e carnale, in opera.

Le immagini riproducono l’incedere di un corpo in ricerca, una ricerca cieca e spesso casuale, di cui si fa testimone l’intero apparato di sottotitoli muti. Una sorta di didascalie insonorizzate incarna cioè il punto di vista di un personaggio perso nello sforzo titanico di ritrovare qualcuno che non esi-ste: «a mute narrator, who speaks only in subtitles, searches for someone, who perhaps doesn’t exist, on a lost ship, going round in circles12». Si tratta di frasi incerte e caratterizzate da puntini di sospensione, che rimandano al fluire ininterrotto dei pensieri del personaggio, come in un monologo tra sé e sé. Incespica, si contraddice, dimentica ciò che sta cercando e cambia idea; la sua ricerca, insomma, si configura come confusa e a tratti disperata. Si leggono frasi come «…And I took a boat…to a place I didn’t know», «And I waited every night…to see you…. Although,… they said… you wouldn’t come13»«…I forgot what _I was waiting for_…», «Then I knew, I’d never find you, but I kept on looking. What else could I do?». Interrogazioni e attese del discorso ricalcano, così, l’incedere incerto e non programmatico della camera sul ponte della nave: la perdita di controllo sulle riprese, che tracciano a loro volta la traiettoria del corpo, insieme al monologo creato dà origine così a ciò che Waddington definisce «a fictional story out of randomly shot documentary footage14». La relazione che si instaura infatti tra la traccia narrativa e il video produce quella sensazione di mancanza, di vuoto attorno al quale ruota il documentario. Non è chiaro chi sia l’oggetto della ricerca, né se effettivamente esista: parrebbe trattarsi di una persona amata, di cui però non si conosce l’identità.

Il carattere incontrollato delle riprese confonde le figure, smentendo così definitivamente la possibilità che si tratti di un dispositivo di controllo, come l’occhio panottico. Par-rebbe, diversamente, che la sovrapposizione dell’atto del ri-prendere con il movimento del corpo dia origine a un cinema inteso come attività performativa: il gesto, emancipato dal regime dell’occhio, viene documentato attraverso le stes-se immagini da esso prodotte. Nel presentarsi come tale, il documentario rivela la presenza, l’azione del realizzatore, che, smascherato, incrina la tradizionale aderenza a un pre-sunto reale, richiesta dal genere. Ecco che quindi il cinema documentario presenta una prospettiva parziale, frutto dello sguardo del suo realizzatore. Tramite un’azione riflessiva, di ripiegamento su se stesso, la performance assume un vero e proprio ruolo di alienazione, ovvero di straniamento da ciò che invece è rappresentato.

È su questo punto che il lavoro di Waddington prende le di-stanze dal procedere di Argo Panoptes, non si tratta cioè di un tentativo di nascondere il proprio sguardo agli altri soggetti, ma, diversamente, di mettere in atto un nuovo modo di esercitare quello sguardo. È il corpo a guidarlo, scardinando ogni abitudine alla pratica cinematografica:

It would be wrong to suspect voyeurism in the use of a camera, normally reserved for spying. For what Laura Waddington is really tracing is her capacity to renounce her gaze and abandon herself to the movement of her body in order to produce a trembling of vision… A gaze that encompasses everything in a single gesture [15].

Le parole di Bouchra Kahlili sottolineano la volontà di porre fine al sentimento di familiarità con cui trattiamo le immagini e l’atto di documentare gli eventi, ciò che, in altre parole, George Didi-Huberman definisce un esercizio di “disarmo degli occhi” – «il faut désarmer les yeux: faire tomber les remparts que l’idée préalable – le préjugé – interpose entre l’oeil et la chose16». Ecco, dunque, che il corpo riemerge come presenza attiva e fondamentale, rivelando la non coincidenza tra il documentario e la sua presunta adesione alla realtà, nonché la sua irriducibile opacità […]
 
p. 45-50
 
La verità dell’immagine si verifica perché vera è la relazione con «qualcos’altro da se stessa», sottendono le parole di Mondzain. È tuttavia, proprio a tal proposito che necessita di essere nuovamente convocata la nozione di pro-vocazione: la verità dell’immagine risiede, sì, nel suo carattere referenziale, ma anche e in virtù della relazione che questo intesse con i tratti più produttivi dell’immagine. Montani definisce questo rapporto come «un proporzionamento instabile dei due fattori, di cui non esiste la formula (perché è creativo nel senso più ampio), ma che può configurarsi efficacemente solo sullo sfondo di quel debito dell’immagine nei confronti del suo altro22». È in questo rapporto contrastivo tra «produttivo e costruttivo», tra la «forza performativa e il patto referenziale» che si accede all’alterità del mondo. Ecco come quella «zona di indeterminazione, di indecidibilità. Di fragilità, di variabilità» sia contestualmente anche zona di produzione di senso, dove è possibile osservare l’emersione di «elementi che riluttano a manifestarsi23».

Nello specifico, ZONE possiede un ulteriore grado di elabo-razione che giustifica e conferma la doppia natura dell’immagine; la regista mette infatti in atto un montaggio che mira a distruggere ulteriormente la definizione del video, rifilma cioè con un’altra camera il materiale ottenuto dalle riprese, modificando poi di volta in volta la velocità della traccia, talvolta velocizzandolo, talvolta rallentandolo; si ottiene così un’opera sull’orlo della disgregazione, che dilata e restringe le dimensioni dell’inquadratura, dalle figure fantasmatiche e spettrali che a loro volta obbligano l’occhio a uno sforzo tensivo di riconoscimento.

She sets about methodically destroying this trem-bling image: she re-films the images in video, then breaks through the layers to get closer to the consistency of film. There is nothing redemptive in this re-working of texture. It is, in fact, the degrading of the original recording to better reveal the na-ture of its vision: impure, fragile and haphazard24.

Si rilevano, in particolare, tre differenti effetti che contribuiscono a disgregare l’immagine di partenza e che generano significati rinnovati. Il primo, e più frequente, è l’andamento a scatti delle immagini in movimento, che si verifica fin dall’inizio del film, sia per via della rimediazione, sia dei rallentamenti intenzionalmente provocati dall’artista. La sensazione è qui di essere di fronte a un’immagine in definizione estremamente bassa, come se la qualità fosse stata diminuita appositamente a scapito della fluidità del video. La distanza che si instaura, dunque, tra lo spettatore e l’immagine è generata dalla percezione del dispositivo che ri-filma il video iniziale, mettendo in luce lo scollamento tra il tempo dello spettatore e il tempo del video. Nella prima sequenza, infatti, si notano dei formanti plastici bianchi e neri, che si avvicendano sullo schermo con fare incerto. Questa suggestione è ancor più rimarcata dall’apparato di sottotitoli, che, nell’uso di tempi al passato, alludono ad eventi remoti e lontani: «When winter came… They told me to forget you… And I took a boat…». In sintesi, la sensazione di distanza, dà origine a un racconto di un’antica memoria, di cui emergono a mano a mano alcuni frammenti slegati, come in un lento monologo. Similmente, la seconda sequenza presenta lo stesso andamento a scatti della precedente e alcune ombre umane si muovono lungo il fianco della nave. Sono fantasmi senza identità, che agiscono privi di fluidità. Nel loro incedere incerto, queste figure, a differenza della sequenza precedente, parrebbero alludere al “they”, coloro che nel testo verbale scoraggiano la ricerca del narratore: «And I waited every night…to see you…althought _they said _you wouldn’t come…». O, ancora, potrebbero essere altrettanto conciliabili con il significato impersonale del pronome inglese. Le ombre fantasmatiche rimanderebbero dunque all’ampio contesto di consuetudini e dei “si dice che” che ricorrono nell’apparato testuale. L’inconsistenza delle figure che si stagliano sul lato della nave potrebbero in qualche modo confermare la vacuità di quelle espressioni. La bassa qualità dell’immagine in questo primo contesto definisce così un vano tentativo di riportare alla memoria una storia del passato, di cui mancano i dettagli e la lucidità: è come se lungo tutta la durata del film, la voce narrante si sforzasse di ricordare, di rimembrare un passato lontanissimo, di cui non è più in possesso.

Il secondo effetto disgregante dell’immagine appare come un filtro retinato (fig.7) che si sovrappone all’immagine del vi-deo; si tratta, cioè, di una sorta di filigrana che applicata al fo-otage d’origine, impedisce l’immediatezza del riconoscimento delle figure, configurandosi come un offuscamento, una nebbia. Il racconto, quindi, assume ancor di più i contorni incerti della ricerca vana della voce/personaggio, che spesso perde coscienza delle finalità del suo agire. Ancora una volta la relazione con i sottotitoli si rivela profondamente significativa: il filtro retinato si inserisce verso la fine della prima sequenza, in concomitanza di «And I took a boat…_to a place I didn’t know_…», così come nella quarta sequenza, dove le immagini vaghe, presumibilmente di un porto, recano la scrit-ta «The nights, that year… were far too long…I forgot what I was waiting for». Continui riferimenti allo smarrimento e all’opacità delle azioni intessono dunque un rapporto stretto con la patina filtrante generatasi dalla rimediazione del fo-otage iniziale. Lo sforzo dello spettatore di riconoscere ciò che compare sullo schermo riflette, così, un analogo rallentamento nel condurre una ricerca da parte della voce narrante: la filigrana in conclusione ricalca il suo incedere annebbiato, con i suoi cambiamenti di rotta, smarrimenti e amnesie.

La terza e ultima strategia che contribuisce alla frantumazio-ne dell’integrità dell’immagine è l’ondulazione dei contorni, «simile alle pieghe di una tenda di cupa trasparenza25», la descriverebbe Deleuze (fig.8); si ravvisano cioè, in alcune sequenze, delle vere e proprie onde che muovono una por-zione dell’immagine e ne disperdono la nitidezza, come si trattasse di un miraggio. La sequenza in questione presenta, oltre al costante andamento scattoso della prima tipologia, la figura di una donna dai lunghi capelli nell’atto di riavviarseli dietro le spalle per volgersi poi a destra, come a cercare qualcuno con lo sguardo. La sequenza si apre con l’immagine della donna che entra nell’inquadratura camminando, per poi uscirne: «Sometimes I thought… I even saw you»; solo suc-cessivamente i contorni prendono quel carattere ondulato, in corrispondenza di «but then I turned around… you would di-sappear». Ecco che un’immagine-miraggio si configura sotto gli occhi dello spettatore, al quale non è chiaro se si tratti di un’immagine reale, o se è invece frutto di un inganno della mente, e che dunque possa scomparire così come si è configurata sullo schermo. In virtù, quindi, di questa particolare increspatura del video, la narrazione e l’immagine producono un livello di significato ulteriore: attingendo all’universo dell’illusione, la figura della donna assume la forma di una chimera, una presenza sull’orlo della scomparsa che confonde la percezione.

La scelta di ridurre al minimo la definizione dell’immagine, rivelando le sue impurità e le sue imperfezioni, è dunque frut-to della volontà di rimaneggiare ancora una volta il footage iniziale riconferendogli nuovo valore e altri significati: come rimarca Waddington, «Out of the broken images, a story emerged26». È precisamente nell’espressione «a story emerged» – è emersa una storia -, che si concentra il nucleo vivo dell’atto di ri-filmare: nella rimediazione o, con le parole di Montani, nel montaggio intermediale, viene abbandonato il principio di trasparenza e successione della messa in serie, per «intercettare uno spazio critico27». È necessario, di conseguenza, un processo di esplorazione dei significati che l’immagine possiede, tramite modalità filmiche di coinvolgimento, ricostruzione e complessificazione. Il montaggio, dunque, si presenta come un atto produttivo e creativo, che, dopo l’azione di “disarmo degli occhi” attuata in fase di ripresa, permette allo sguardo di “riarmarsi”, di “riapprendere a vedere”:

Mais il faut, deuxièmement, réarmer les yeux. Non pas de règles générales, de principes durs comme fer ou représentations qui fermeraient à nouveau le visible dans la nasse des idées toutes faites. Réarm-er les yeux pour voir, pour s’essayer à voire, pour réapprendre à voir28.

Dall’esperienza di ZONE si assiste, infatti, a un’evoluzione del ruolo della regista. Presa coscienza del materiale registrato, si appresta a lavorarlo ulteriormente suscitando nello spetta-tore una visione altra e mettendo in moto nuovi spazi critici. Il medium, in altri termini, viene reinventato ed emancipato dal ruolo di mero supporto, per ricoprire un’entità autonoma e articolata29. L’attitudine di osservatore disinteressato e va-gamente inconcludente lascia il posto a una nuova coscienza, quella che Gilles Deleuze definisce visionaria, del veggente. «Il veggente è _quella figura, o configurazione dello sguardo», secondo la lettura di Francesco Zucconi «in grado di suscita-re una _visione ulteriore da parte dello spettatore. Il veggente manifesta la coalescenza di realtà e spettacolo ed è capace di leggere e far leggere la prima passando attraverso le forme che questa assume nel secondo30». La realizzatrice entra, cioè, nei panni di una visionaria, che tramite il montaggio e la ricostruzione dei frammenti video, crea narrazione inedite e problematiche. Questo carattere visionario si manifesta in una sequenza particolare di ZONE. Gli ultimi minuti del documentario presentano la figura eterea e fantasmatica di un uomo, un marinaio filippino dell’equipaggio (fig.9), che, illuminato frontalmente da una luce come di un faro, sorride con gli occhi rivolti oltre la telecamera. Attraversa il campo visivo inquadrato dalla microcamera, poi, come in un’apparizione, abbandona l’inquadratura. Per Laura Waddington, la presen-za del marinaio filippino si configura insieme rivelatoria e funzionale per la concezione del successivo *CARG*O (2001):

Years later, when I was commissioned by The Rotterdam Film Festival to make a video diary in a port, the memory of that man led me to shoot CARGO (2001). For I had often thought about the sailor, who had spoken to me in Tagalog and shown me the moon, and how hundreds of Filipino workers lived on the cruise ship below sea level, forbidden to take air outside and invisible to the passengers, except when cleaning their rooms31.

Il marinaio si manifesta come la rivelazione di un segreto, un personaggio del destino che assume nella narrazione il ruolo di apparizione. Si legge infatti nell’apparato testuale di sotto-titoli: «So they sent me the man…», come se l’incontro provvidenziale fosse voluto da qualcuno.

La sequenza finale è significativa, tuttavia, anche per altri motivi. Contestualmente al continuo andamento a scatti delle figure e alla retina filtrante che riducono la qualità dell’im-magine, il viso del lavoratore filippino viene illuminato fron-talmente da una fonte di luce sconosciuta; essa lo fa emergere dal fondo nero, dando vita a un contrasto tra ciò che è chia-ramente inondato dalla fonte luminosa e ciò che invece rima-ne inalterato: la luce, nel definire quindi due zone di diverso grado di concentrazione, mette in moto un effetto di senso che funziona plasticamente come un filtro nell’opposizione graduale tra luce e buio [32].

Ci si deve interrogare, in questo caso, su che tipo di disvela-mento e substrato33 emergano in questa circostanza; la figura, come uno spettro, appare e poi scompare sorridendo dall’in-quadratura e si rende visibile solo ed esclusivamente nella notte, al riparo dagli occhi dei passeggeri diurni. La visione fugace di quell’uomo, che altro non fa che sorridere, apre uno squarcio nella confusa ricerca della voce-personaggio. Il marinaio si inserisce in un’immagine che poco possiede del movimento e dell’azione, ma anzi, costituisce una situazione di incontro con l’istanza narrante, l’enunciatrice, con cui in-tesse un contatto ambiguo e da decifrare: improvvisamente sembrerebbe che tutto l’offuscamento della ricerca si diradi e che il continuo incespicare venga meno, a favore invece di un’illuminazione inaspettata e folgorante: «So they sent me the man… with the strange smile… who told me things… I could not hear…». La continua assenza di audio su un registro e l’incapacità di sentire le parole dell’uomo su un altro, con-vogliano il nucleo della scena proprio sul viso e sul sorriso del marinaio che «più che essere impegnato in un’azione, è consegnato a una visione, che insegue o da cui è inseguito [34]».

Permane tuttavia come lungo tutta la durata del film, l’ormai familiare spessore della grana dell’immagine: si crea così una condizione di luce, che Fontanille descriverebbe come lumière-matière, una condizione cioè che «inventa l’ostacolo, la trasparenza e tutte le figure dell’occupazione35». La presenza della membrana filtrante, che genera una texture granulosa e offuscante, parrebbe cioè interporsi tra il rifrangersi della luce e il viso del marinaio, dando origine a una particolare tipicità della lumière-matière, ovvero uno stato di luce diffuso e agitato, nebuloso nei termini di Fontanille. A livello generale, perciò, questo effetto si verifica nei casi in cui si trovano punti e zone sparse di illuminazione e un ostacolo “nuvoloso”, frammentario e in movimento. Dusi, ne riporta i caratteri in riferimento all’analisi deleuziana delle opere di Bacon:

La luce materica è quindi una forma di occupazio-ne dello spazio, in cui non v’è un semplice rapporto duale tra fonte luminosa e bersaglio, poiché instau-ra un conflitto con degli attanti, ostacoli o filtri che siano. Le differenti modulazioni della luce provo-cano degli effetti di volume e di grana della figura, con linee e riflessi che non dipendono più solamen-te dalla vettorializzazione globale imposta dalla luce, dalla sua forza di “coesione”, bensì dalla sua forza “dissolvente”, la sua dispersione.36

È tramite gli effetti di volume e di grana appunto che l’im-magine assume carattere materico, rompendo «la costrizione di un’immagine puramente “ottica” facendo intervenire altri mondi sensoriali37». Gli effetti di senso, già in seno all’imma-gine, si amplificano dunque nell’interazione tra luce e patina filtrante dovuta al processo di rimediazione e ne confermano il valore di “emergenza” e svelamento.

FOOTNOTES

1 L. Waddington, Scattered Truth, cit.

2 O. Calabrese, Come si legge un’opera d’arte, Milano, Mondadori univer-sità, 2006, p. 32.

3 S. Bernardi, L’avventura del cinematografo, Vene-zia, Marsilio Editori, 2007.

4 D. Tomas, Vertov, Snow, Farocki, Machine vision and post human, New York, Bloomsbury Acade-my, 2013.

5 Ivi, p. 1.

6 Ibid.

9 Ivi, p. 178.

10 C. Baudelaire, Il pittore della vita moderna, cit., p. 1282.

11 T. Paglen, Operational Images, in “eflux” Journal n. 59, novembre 2014, [online:https://www.e-flux. com/journal/59/61130/operational-images/.

12 L. Waddington, Scattered Truth, cit.

13 Tutti i corsivi nei sotto-titoli riportati sono miei.

14 L. Waddington, Scattered Truth, cit.

15 B. Khalili, The Pain of Seeing: The Videos of Laura Waddington, in The 51st Oberhausen Short Film Festival Catalogue, 2005 online: “https://www.laurawaddington.com/articles/7/the-pain-of-seeing-the-videos-of-laura-waddington”

16 G. Didi-Huberman, Remonter, défendre, restituer, in L’image-document, entre réalité et fiction, a cura di J.P. Criqui, in «Le carnets du bal», n.1, 2010, p. 169.

22 P. Montani, L’imma-ginazione intermediale, Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile, cit., p. 18.

23 Ibid.

24 B. Khalili, The Pain of Seeing: The Videos of Laura Waddington, cit.

25 G. Deleuze, Francis Bacon, Logiche della sensazione, Macerata, Quodlibet, 2020, p.72.

26 L. Waddington, Scatte-red Truth, cit.

27 M. Bertozzi, Documen-tario come arte, riuso, performance, autobio-grafia nell’esperienza del cinema contemporaneo, cit., p. 55.

28 G. Didi-Huberman, Remonter, defendre, resti-tuer, cit., p. 169.

29 È Rosalind Krauss a condurre una riflessione sul concetto di medium specificity. Ritrova infatti nella scena artistica degli anni Novanta una ten-denza a servirsi di mixed media o intermedia, a sostegno, secondo lei, di una “moda” globale verso la spettacolarizzazione dell’arte, cfr. R. Krauss, A voyage on the North sea. Art in the Age of the Post-Medium Condition, London, Thames&Hudson, 1999.

30 F. Zucconi, La sopravvivenza delle immagini, Archivio, montaggio, intermedialità, Milano, Mi-mesis, 2020, p. 151. Corsivi dell’autore.

31 L. Waddington, Scatte-red Truth, cit.

32 N. Dusi, Strategie della defigurazione. Lo sfocato: dinamiche espressive e processi di enunciazione tra pittura e cinema cit., p. 15

33 L. Waddington, Scattered Truth, cit., Laura Waddington riprende, nell’intervista, le parole di Antonioni rispetto alla natura stratificata dell’immagine: “Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima, fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa che nessuno vedrà mai, o for-se fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà”

34 G. Deleuze, L’immagine-tempo, Cinema 2, cit.

35 N. Dusi, Strategie della defigurazione. Lo sfocato: dinamiche espressive e processi di enunciazione tra pittura e cinema, cit.
p. 15., cfr. J. Fontanille, Sémiotique di visible, Des mondes de lumière, Parigi, Puf, 1995

36 N. Dusi, Strategie della defigurazione. Lo sfocato: dinamiche espressive e processi di enunciazione tra pittura e cinema, cit., p. 15.
37. Ivi, p. 16.