Intervista a Laura Waddington con Olaf Möller

Olaf MöllerThe 51st Pesaro Film Festival Catalogue, 2005.

OLAF MÖLLER: Quando ha incominciato a interessarsi al cinema? E come sono nati i suoi primi film?

LAURA WADDINGTON: Quando ero ragazzina e vivevo a Londra, per me esistevano soltanto i film di Hollywood. Il mio interesse per il cinema nasce più dalla curiosità verso i registi che verso i film. Mio padre aveva una galleria d’arte e spesso alcuni dei suoi clienti ci invitavano alle loro serate. La cena con Sam Peckinpah è uno dei ricordi più belli della mia infanzia. Peckinpah raccontò una barzelletta in cinese a uno dei camerieri, che se ne andò dalla stanza molto adirato. Non ho mai dimenticato la commistione di sadismo ed estrema gentilezza negli occhi di Peckinpah e ricordo ancora i suoi racconti sul deserto e sul set di un film. Già molti anni prima di vedere i suoi film, ero sicura che fossero tra i più belli mai girati.

Qualche anno più tardi, Derek Jarman venne nella nostra scuola. Invece di sedersi dietro la cattedra, si sedette sopra e dondolando le gambe, parlò con entusiasmo ed estrema semplicità del suo lavoro di regista. Mi lasciò l’impressione che il cinema non fosse parte di un macchinario commerciale più complesso, ma che fosse qualcosa di molto più personale e più libero. Volevo iscrivermi alla scuola di cinema, ma ero ancora troppo giovane e decisi di studiare letteratura inglese all’università di Cambridge. Dopo poche settimane smisi di andare a lezione e cominciai a frequentare regolarmente un cinema d’essay locale. In maniera del tutto casuale scoprii Murnau, Tarkovski, Jack Smith, Vigo, Jean Genet. Trascorsi i tre anni successivi a guardare film e leggere libri. Decisi che dovevo fare un film il più presto possibile e appena compiuti 21 anni partii per New York. Lavorai a film indipendenti e girai il mio primo film, The Visitor, con alcuni amici, in una camera d’albergo, in un solo weekend.

OM: Perché ha deciso di passare dai film ai video – oltre all’aspetto economico (che generalmente è solo un altro modo di dire: la mia visione non rientra in questo particolare sistema economico…)?

LW: A New York conobbi dei musicisti che producevano e distribuivano musica fuori dai loro appartamenti. Mi impressionò molto il modo in cui cercavano di aggirare le strutture di produzione tradizionali. Ebbi la sensazione che anche i film si sarebbero potuti muovere in questa direzione e che avrei dovuto cominciare a usare il video. A quel tempo i video venivano ancora snobbati e non erano considerati un’alternativa credibile ai film. All’inizio ebbi non poche difficoltà a lavorare con il video, essendo abituata a utilizzare la pellicola da 16 mm in bianco e nero che crea immagini più astratte. L’immagine video mi appariva ben più immediata, come la televisione, ma apprezzavo moltissimo la libertà di poter lavorare da sola con una piccola videocamera. Scoprii che c’erano molte possibilità e che i video spesso erano la summa delle loro casualità. In questo senso posso dire che il video ha cambiato totalmente il mio modo di fare film. Con i miei film raccontavo una storia già scritta, girata in uno spazio chiuso. I video, invece, sono sperimentali e si evolvono durante la realizzazione.

OM: Ha girato “ZONE” con una telecamera nascosta. Una domanda un po’ insolita: in che misura questo apparecchio ha influenzato la sua vita e le ha fatto scoprire strade che altrimenti non avrebbe percorso?

LW: All’inizio continuavo a considerare i video come se fossero un po’ i parenti poveri dei film. Volevo trovare una strada mia, completamente autonoma. Così decisi di filmare senza usare i miei occhi, per affrancarmi completamente. Pensavo che se avessi lavorato in questo modo, quando avrei ricominciato a usare una normale videocamera sarebbe stato come filmare per la prima volta. Comprai una spycam e la cucii al posto di uno degli specchietti circolari che adornavano il mio gilè turco, quindi mi imbarcai su una nave da crociera che attraversava l’Atlantico. Sulla nave non avevo modo di vedere quello che filmavo e dovetti imparare a fidarmi del movimento del mio corpo. Mi accorsi quasi subito che l’angolazione non era buona perché la videocamera era rivolta troppo verso l’alto, perciò fui costretta ad adottare una andatura molto strana, un po’ ingobbita.

OM: Si definirebbe di più una persona che trova o una persona che cerca qualcosa?

LW: Spesso non capisco cosa sto facendo e dove sto andando.Quando giro un video, per me è molto difficile spiegare con le parole le mie intenzioni. Da qui nascono i problemi per ottenere i fondi per la produzione. Io lavoro in modo molto istintivo e per me il metodo – incontri, amicizie e casualità – è importante quanto il risultato. Nel momento in cui trovo qualcosa, sto già cercando qualcos’altro.

OM: Come sono nate le immagini di “The Lost Days” e quali sono le ragioni che si nascondono dietro questo film?

LW: Dopo aver girato ZONE ho scritto The Lost Days, la storia di una donna che fa il giro del mondo e invia ‘videolettere’ a un amico di New York. In quel momento vivevo illegalmente negli Stati Uniti, quindi non potevo viaggiare. Attraverso Internet, cercai gente in quindici paesi e chiesi loro di filmare per me le loro città, come se fossero la donna della mia storia. Il mio obiettivo era di rifilmare e mettere insieme tutte queste immagini, in modo che chi avesse visto il video avrebbe pensato che fosse il viaggio di una sola persona. Il materiale raccolto era molto vario. Alcuni hanno filmato due ore, altri dieci o quindici, alcuni avevano già esperienza, mentre altri usavano la videocamera per la prima volta. Inoltre mi sono trovata di fronte a non poche difficoltà tecniche: poiché le riprese provenivano da tutto il mondo, alcune erano registrate nel sistema europeo PAL e altre nel sistema americano/giapponese NTSC. Ho comprato un vecchio equipaggiamento video che spiegava come filmare e rifilmare le immagini dalla TV, passandole attraverso i correttori di colori e rifilmandole ancora e ancora. Alla fine le immagini erano così frammentate che la differenza del sistema video non era più così grande e il materiale cominciò lentamente a dare l’impressione di essere stato filmato da una sola persona.

OM: Se non sbaglio, in alcune occasioni le immagini che si vedono non sembrano provenire dal luogo suggerito dalla voce…

LW: Esatto. Le immagini non corrispondono sempre ai paesi mezionati dal narratore. Ad esempio la protagonista racconta della sua infanzia in Argentina su immagini di Milano e Mosca, oppure parla di una visita a La Paz su imma gini  della Cina. A un certo punto si vedono dei volti di uomini in un bus a Datong, mentre si parla di andare a vedere Johnny Guitar in un cinema di Parigi. Volevo che tutti i paesi si fondessero in uno solo perché questa è la storia di una donna che attraversa molti posti senza comprenderli realmente. È la mia paura di viaggiare, l’idea che si possano imporre i propri pregiudizi su un luogo, trovando solo le cose che si vogliono trovare, senza prendersi il tempo di osservare realmente. In questo senso la parola “lost” (perduti) del titolo si riferisce anche a lei.

OM: Al tempo di “The Lost Days” e “ZONE”, quando stava lavorando con immagini ‘arrivate in modo quasi aleatorio’, ha mai pensato di smettere del tutto di filmare e lavorare esclusivamente sulleimmagini di altre persone?

LW: In quei pochi anni non ho girato nemmeno una sola immagine per me stessa. Ho utilizzato la videocamera soltanto per un paio di lavori su commissione, come video per coreografi, moda e artisti, oppure per rifilmare le immagini nel modo che ho descritto per Zone e The Lost Days. L’intero processo di realizzazione di questi film e la mia decisione di non girare altre immagini durante questi anni rappresentano una scelta ben precisa. Quando ho cominciato a girare i video, li ho sempre paragonati ai film. La mia speranza era che se non avessi filmato nulla per alcuni anni, quando avrei ripreso sarebbe stato come filmare per la prima volta. Speravo così di riuscire a non paragonare i video ai film e di accettarli per quello che sono. Questo è quello che è successo quando ho cominciato di nuovo a filmare per CARGO e Border. Sono arrivata ad amare il video perché rappresenta quasi una forma di scrittura.

OM: Ha trovato una sorta di sicurezza negli sguardi delle altre persone o, al contrario, è stato forse per una percezione del pericolo che ha cominciato di nuovo a guardare attraverso un mirino?

LW: In verità ero molto frustrata e per me è stato difficile rimanere tutto questo tempo senza filmare. Ma io ho paura di filmare, perché filmare qualcuno è un’enorme responsabilità. Credo che la videocamera non catturi soltano la superficie, ma vada anche in profondità, in modo molto sensibile e intimistico. Credo che la videocamera possa essere anche estremamente violenta.

OM: Perché ha sentito la necessità di parlare di amore e desiderio in tutte le sue opere, ad eccezione di “Border”?

LW: Mentre giravo ZONE e The Lost Days non avevo alcuna idea di quale sarebbe stata la trama definitiva. Durante la fase di editing ho cercato di creare una linea guida, una sorta di movimento attraverso lo spazio. È stato solo dopo aver trovato questa forma che ho scritto i voice-over. A posteriori, credo che sia stato un errore introdurre gli elementi d’amore nei voice-over. Le immagini e l’editing sono stati un esperiento. Nei voice-over ho cercato di inserire una sorta di idea preconcetta di ciò che ritenevo dovesse essere il cinema, o meglio di quello che speravo potessero essere i miei film. Invece di esplorare quello che avevo di fronte a me, andavo troppo avanti oppure ritornavo sempre sugli stessi passi.

Con CARGO ho cercato di unire il documentario e la fiction. Per me era molto importante che il pubblico si interrogasse sulla veridicità della narrazione. Nei voice-over ho incluso di proposito alcune contraddizioni; all’inizio, ad esempio, dico che non ho parlato per tutta l’estate, ma in seguito si capisce che ovviamente non può essere vero. CARGO è raccontato sotto forma di lettera a un uomo di Parigi. Durante il video, però, questa forma diventa troppo ridondante. Nelle ultime righe parlo di una telefonata che ho ricevuto da uno dei marinai. L’attrazione per il marinaio e per le persone che ho filmato, per me era diventata più importante del mio interesse a scrivere a quell’uomo. Alla fine, spiego, “Non sono riuscita a raccontarti tutti i posti dove sono stata.” Dopo CARGO ho capito che la forma della lettera non era più adatta e che dovevo trovare una nuova strada.

In seguito, con Border, ho avuto sempre la sensazione di non riuscire a comunicare quello che ho visto a Sangatte. Sapevo che per me era impossibile parlare dal punto di vista dei rifugiati e l’unica cosa che potevo fare era parlare di quello che potrà venire da una società che permette questa situazione. Sapevo che avrei potuto lasciare soltanto una traccia piccola e incompleta.Credo che Border sia un video pieno di solitudine in cui, io per prima, diffido del mio stesso tentativo di parlare. Nel voice-over ho cercato di dire il meno possibile e di parlare in modo comprensibile, nella speranza che il pubblico potesse ricordare l’incompletezza delle mie immagini. Negli ultimi istanti del video la telecamera si ferma sui fari anteriori di alcune macchine, mentre io mi rivolgo direttamente a un rifugiato. Con questo espediente volevo rovesciare la narrazione. Questo stesso rifugiato, infatti, mi aveva scritto una lettera spiegandomi che quando eravamo a Sangatte era stato costretto a mentirmi sulla sua vita. Si capiva che le cose erano molto più complicate di quanto io stessa potessi comprendere.

OM: Guardando al suo lavoro oggi, si vede un certo progresso. È stato casuale oppure lei cercava davvero di mettere ordine nella sua vita?

LW: In verità io non so mai dove sto andando realmente, ma se ripercorro i miei lavori vedo che ogni film o video nasce dal lavoro precedente. In qualche punto della realizzazione di un video si può capire che nascerà un video nuovo, anche se io stessa ci metto un po’ a riconoscerlo. Spesso sitratta di un semplice particolare, una persona che ho incontrato mentre filmavo, un volto, una storia. Non posso forzarlo. È come quando si filma: spesso è solo questione di attendere che l’idea arrivi da sola.

Intervista a Laura Waddington con Olaf Möller, The 51st Pesaro International Film Festival Catalogue, Italy, 2005