Sangatte, Frontiera del Mondo

Federica SossiJGCinema.org, Italy 2005.

Di Federica Sossi

Ha scelto un’immagine stilizzata e irreale Laura Waddington per dirci che cos’è Border. E due unici colori, il rosso e il nero. Rosso il cielo e nera la terra, a tratti nero il cielo e rosso il suolo. Non un rumore e non una musica, solo la sua voce, cadenzata dal silenzio, e una poesia del racconto.

Un’estetica del presente, o un’estetizzazione del presente con cui narrare il presente, quello dei Borders che circondano l’Europa e le nostre esistenze, come se per dire frontiera ci fosse bisogno di passare attraverso l’irrealtà della distanza. Border, frontiera e limite di tutto. Pure dell’intimità della nostra esperienza che gli altri intravedono, attraversano e circondano, senza sapere che cosa c’è dentro di noi. “Passi per strada e coloro che ti circondano non sanno nulla di te, non puoi dire loro che sei stata a Sangatte”. Termina con queste parole Border, con un confine, assoluto, impenetrabile. E lei, Laura, regista delle immagini che mettono a distanza, è dentro al confine, dentro allo spazio impossibile delimitato da quelle frontiere.

Sangatte, frontiera del mondo. E metonimia del presente per dire tutte le frontiere del mondo. Tra il nero della terra si muove la figura di un uomo, il rosso del cielo ha alcuni punti più rossi, quasi infuocati, potrebbero sembrare dei soli, all’inizio, ma sono fari. Fari, luci sulla figura di quell’uomo che non ha volto e non ha occhi, ha un corpo, ma nascosto tra i cespugli, quasi cespuglio. Cerca di farsi cespuglio, come altri insieme a lui, molti, e come Laura con loro, con la sua cinepresa. Corre, lei, quando loro corrono, e aspetta tra quegli uomini cespuglio di cui a fatica ci ridà nell’immagine la silhouette. “A volte, quando arrivava la polizia e li perdevo, avevo paura”.

Aspettano un treno i corpi cespuglio che Laura ha perduto, un passaggio, l’irreale possibilità di andare al di là della frontiera. A volte qualcuno perde un braccio, una gamba, qualcuno muore. Il treno non si ferma per farli salire, passa ad alta velocità sui binari accanto ai cespugli, poi si immette nel tunnel, orgoglio tecnologico di due paesi alla frontiera. Aspettano e corrono quando arrivano i fari, salgano, se ci riescono, o rimangono sui binari se non sono riusciti a salire, ritornano tra i cespugli e sul sentiero verso casa, se non hanno perduto gambe e braccia nel tentativo di salire, in gruppo, con altri corpi cespuglio come loro, o scortati dalla polizia, quando, come quasi ogni sera, gli uomini con i volti e le divise sono tra i cespugli accanto ai binari per stanarli.

Casa o campo per quei corpi è lo stesso. Sangatte, frontiera del mondo. 63.000 rifugiati sono passati di lì, negli anni in cui il campo è esistito. Tre anni, al confine tra Francia e Inghilterra, dal settembre del 1999 al dicembre del 2002, e nei dintorni del campo di Sangatte un cartello sull’autostrada, vicino a Boulogne-sur-mer, dice che l’Inghilterra è a due passi. Non per i corpi cespuglio di cui Laura Waddington ci fa vedere le sere. Rosso, il cielo rimane anche quando l’immagine si avvicina al campo. Un’altra silhouette, di un uomo danzante. Danza dietro alle sbarre e al recinto, anche lui stilizzato, anche lui privo di volto e di occhi. Altre figure passeranno per quel sentiero, in gruppo, silhouette alte e alcune più basse, bambini dietro agli adulti di ritorno al campo-casa dopo un tentativo di passaggio fallito.

Rifugiati. Afgani, pakistani, kurdi. “Ho conosciuto un professore kurdo e i suoi due bambini”, dice la voce fuori campo, “nessuno li attendeva, non avevano alcun luogo in cui andare”. Rifugiati, di altri paesi ancora, non attesi da nessuno, come il professore e i suoi due bambini, senza alcun luogo in cui andare. Già. Proprio il luogo è il problema. Tutti hanno provato a farsi corpo cespuglio per raggiungere il treno, saltare sui vagoni, o aggrapparsi saldi alla sua corsa, per passare il tunnel verso l’Inghilterra. Non verso un luogo, solo verso l’ultima possibilità di un luogo al di là del quale c’è il vuoto. Prima altri luoghi reali per gli abitanti, irreali per loro. Quattro o cinque paesi attraversati, due o tre in Europa, la Grecia, presumibilmente, al di là della Grecia l’Italia, al di là dell’Italia la Francia, e poi, poi resta solo l’Inghilterra e quel treno o una nave accanto al campo di Sangatte, unico luogo per loro reale. Abitanti del campo, non rifugiati, dunque, ma rifiutati.

Sangatte, frontiera del mondo. E metonimia per dire tutte le frontiere del mondo e d’Europa in un tempo in cui i rifugiati sono rifiutati e, al limite, abitanti di un campo.

Rosso il cielo e nera la terra, a volte nero il cielo e rosso il suolo. Immagini che dicono l’irreale, come in un sogno, un incubo, qualcosa che ti porti dentro, uno spazio intimo, che chi ti circonda non sospetta in te. Un modo per dire la realtà del campo e i rifiutati della terra. Non so se comunicativo per tutti, certo un tentativo di farci essere lì, uomo o donna cespuglio ad attendere il treno, silhouette bambina o adulta sul sentiero del campo, improvviso volto e urlo quando gli uomini con i volti e le divise usano la loro violenza e i loro manganelli. E’ l’unica scena, questa della violenza, in cui il silenzio è spezzato e i corpi, anche quelli dei rifiutati, assumono consistenza. Poi le immagini si dissolvono, i corpi dei rifiutati riprendono la loro reale consistenza, silhouette indistinte, poi solo vestiti, poi nulla.

“Sangatte, Frontiera del Mondo” di Federica Sossi, JGCinema.org, Cinema e Globalizzazione, www.jgcinema.org, Italy, February 2005